Sul canale YouTube del Centro Studi Ricerca e Formazione Cisl è disponibile la registrazione dell'incontro di presentazione del libro: "Sapere, Libertà, Mondo. La strada di Pippo Morelli" (di Francesco Lauria, Edizioni Lavoro) all'Aula Magna dell'Università di Reggio Emilia, organizzato da Fim-Cisl Metalmeccanici Fnp Cisl, Cisl Emilia Romagna, Cisl Emilia Centrale
La Strada di Pippo Morelli
venerdì 1 luglio 2022
PIPPO MORELLI, INTERPRETE DEL FUTURO DEL LAVORO. GUARDA LA REGISTRAZIONE DEGLI INTERVENTI SU YOUTUBE
mercoledì 22 giugno 2022
Un sindacato e un uomo: “dipinti di cielo e macchiati di terra” (1)
Di Francesco Lauria – Centro Studi Cisl
Firenze[2]
Lunedì 20 giugno è stata una giornata stupenda, attesa. Non retorica.
Oltre 250 persone nell'Aula Magna dell'Università di Reggio Emilia, la sua città, ad ascoltare la "strada di Pippo Morelli", interprete del futuro del lavoro. con i contributi di Rosy Papaleo, Filippo Pieri, Daniela Fumarola, Gian Primo Cella, PierPaolo Baretta, Romano Prodi, Chiara Morelli, Ferdinando Uliano, coordinati magistralmente da Ester Crea. Questa è la traccia, ampliata, del mio intervento.
Ho
riflettuto a lungo su come iniziare il mio intervento in questo emozionante
incontro sulla strada di Pippo Morelli.
La
memoria è tornata a Bologna, presso la sede della Cisl Emilia Romagna, in un
lunedì caldo (quasi) come questo: il 22 luglio 2013.
A un
mese dalla morte, in una sala gremita, si svolsero la Messa e il ricordo di
Pippo Morelli, celebrati e coordinati dall’indimenticabile cuore e voce di Beppe
Stoppiglia.
Il sacerdote
e fondatore di Macondo raccontò, in quella occasione, della sua prima
conversazione a Bologna con Pippo, nel 1977.
Tratteggiava
così il suo amico:
“Pippo è stato un sindacalista sempre con
la schiena dritta, un uomo forte e resistente, talmente trasparente e vero da
diventare scomodo come tutti i profeti. Si, perché Pippo è stato ed era un
profeta, anche nel sindacato, per la sua genialità e la sua capacità di leggere
i segni dei tempi, con l’occhio innocente di un bambino scanzonato.
Un uomo dipinto di cielo che si è
macchiato di terra per farsi racconto di Dio in mezzo ai poveri, agli ultimi, i
senza nome e i senza voce”.
Continuava…
“Per alcuni il suo atteggiamento era
imbarazzante, perché considerato provocatorio, ma la sua umiltà e la sua
immediatezza lo rendevano una persona disarmata. Essendo un uomo libero,
attirava a sé i semplici e i puri di cuore, era un poeta della pedagogia
sociale.”
Quel
giorno fu, insieme, doloroso e illuminante. Pensavo di essere stato l’unico a
salire a Bologna da Pistoia. Non era così.
C’era
anche Antonio Piras, sindacalista sardo trapiantato in Toscana, dirigente della
Femca Cisl, che con Morelli aveva percorso un significativo tratto di strada.
Antonio
si presentò insieme al suo nipotino che, valicando con lui l’Appennino, lo
aveva accompagnato nel viaggio. Con sguardo profondo, che non ho mai
dimenticato, tenendolo per mano, spiegò a tutti, con parole semplici e
scandite, che era per il futuro di quel bambino che, nonostante i venti anni
del suo obbligato silenzio, non si poteva dimenticare Pippo Morelli: interprete
del futuro del lavoro.
Lavoravo
da circa un anno al libro su Pippo e non ero ancora pienamente consapevole del
“giacimento minerario” rappresentato da questo protagonista “quasi inavvertito”
del Novecento sindacale e sociale italiano.
Conoscevo
la storia di Pippo grazie a tre persone che mi avevano aiutato nella ricerca
sulle 150 ore per il diritto allo studio: Bruno Manghi, Paola Paola Piva e
Domenico Paparella.
Era
stato proprio Paparella, altro fimmino, intellettuale-sindacalista, prematuramente
scomparso, a rispondere, nel 2005, per primo alla mia domanda: “Ma chi è questo Pippo Morelli?”
Cominciavo a studiare l'Flm, gli anni
dei metalmeccanici (e non solo) che davano l'assalto al cielo, ma soprattutto
conquistavano e organizzavano diritti, non solo salario.
Studiavo l'Flm, la sinistra sindacale,
grazie al per me illuminante lavoro di Fabrizio Loreto “L’anima bella del sindacato”, ricostruivo le 150 ore e mi ero imbattevo
continuamente in questa figura in cui mi immedesimavo più che in ogni altra.
Persino più che in Vittorio Foa, che mi aveva affascinato enormemente fin dagli anni dell'università.
In Morelli, intuivo qualcosa di
speciale, unico, un intreccio di radicalità e di visione, di intraprendenza
organizzativa e di capacità di anticipare il futuro, apertura educativa e
testimonianza esigente. Di fede, giustizia e libertà, che mi stupivano, mi
accarezzavano, mi spronavano ogni volta.
Certo, c'era anche l'inquietudine ostinata in cui tanto mi riconoscevo e riconosco. La capacità, come ha spiegato Carmine Marmo, di non accontentarsi mai, di accendere fuochi senza sosta, senza volerli per forza controllare. Non serve, infatti, dominare i fuochi accesi, i “tizzoni ardenti”.
Solo anni dopo avrei iniziato, nel 2012, alla conclusione della mia ricerca sulle 150 ore per il diritto allo studio, a percorrere, "a palmo a palmo" la sua strada. Avrei incontrato Susanna, Chiara, Francesca, Giorgio, Macondo e Beppe Stoppiglia, il mondo di Pippo anche attraverso gli occhi amichevoli, ma mai accomodanti, di Pierre Carniti.
C’è qualcosa di ancor più grande che ci
rivela la sua storia.
Mentre cercavo l’eresia ho incontrato in lui, proprio come in Pierre Carniti, la formula segreta e incarnata della “splendida anomalia” della Cisl.
Una formula, ci tengo a precisare, mai
definita e definitiva.
Ricostruire lo spirito fondativo della Cisl e i progetti e gli incontri che ne hanno permesso l’evoluzione e il divenire, non è opera semplice, poiché molte e ricche furono le influenze e le positive contaminazioni.
Allo stesso tempo, però, non è difficile
concordare con quanto ha scritto Vincenzo Saba:
“i protagonisti di quella scelta avevano infatti come patrimonio e come loro risorsa fondamentale, un’idea molto semplice, ma anche molto importante per la vita dei popoli e, quindi, per la vita del sindacato: che il sindacato doveva essere libero”.[3]
Ripercorrere la vita di Pippo ci permette di comprendere a pieno al progettualità della frase di Giulio Pastore al primo congresso della Cisl: il celebre: “dobbiamo creare tutto dal nuovo”.
Non solo una frase ad effetto a tema organizzativo: ma la scommessa della creazione di una nuova e inedita cultura e prassi sindacale a livello mondiale.
Il primo congresso della Cisl e il primo
corso lungo della confederazione a Firenze (non ancora in Via della Piazzola)
partono quasi appaiati, debitori uno all’altro.
Non è un caso che proprio Pippo, solo un anno dopo Carniti, Crea, Colombo, Marini, Sartori, quasi contemporaneamente a Maresco Ballini e Franco Bentivogli, fresco della discussione della tesi di laurea con Mario Romani, acceda ad un esperimento unico e peculiare, per nulla casuale: il corso esperti della contrattazione.
“Giovani menti”, avrebbe detto Giuseppe
Dossetti, i neo-laureati più promettenti del paese, che, con un approccio
multidisciplinare, vengono a formarsi, chiamati da Giulio Pastore, sulle
colline di Fiesole per “masticare” il sindacato e apprendere e poi insegnare
come sostenere la diffusione concreta della contrattazione aziendale in Italia.
Non intellettuali del sindacato, quindi, ma realizzatori di una ricerca-azione che, nel quotidiano, si adopereranno nella costruzione paziente delle condizioni certo non semplici per la realizzazione della contrattazione articolata in tutto il Paese.
Se studiamo, solo per avere due esempi, le biografie di Carniti e di Morelli alla fine degli anni Cinquanta, ritroviamo proprio questo impegno cruciale nella nascita e nel progressivo consolidamento, non solo operativo della Cisl: la centralità in dialogo con i territori del Centro Studi di Firenze, l'effervescenza e la costruzione di una nuova cultura sindacale che si misura con la realtà e con la scommessa verso la formazione e l’accompagnamento di una nuova classe dirigente diffusa e consapevole.
Una cultura sindacale che, come spiega
spesso Gian Primo Cella, si arricchisce ulteriormente nel contesto milanese in
cui anche Pippo inizierà ad operare.
Con la guida, certo, del “faro” Carniti,
ma attraverso una squadra non solo di dirigenti sindacali, ma anche di
importantissimi membri delle commissioni interne, delegati di fabbrica, che
costruiranno sul campo il “sindacato nuovo” nel contesto industriale milanese.
In quegli anni si darà anche, vita ad un esperimento, a mio parere ineguagliato, di effervescenza culturale e di elaborazione: la rivista “Dibattito Sindacale”.
Come ha spiegato molto bene Morelli
stesso c’è una data che è uno spartiacque.
Una data molto precedente al biennio
impetuoso del 1968-1969.
Se gli anni cinquanta sono gli anni
della “semina”, il primo raccolto, infatti, ha una data precisa: il 1962.
L’anno dell’affermazione definitiva
della contrattazione aziendale (con il protocollo Intersind-Asap), ma anche
della nascita della nuova Fim.
Una dirigenza nuova viene eletta e avvia
una stagione di “risveglio sindacale” e di radicali trasformazioni delle
relazioni contrattuali scriveva Pippo nella sua “Memoria sul 1962”.
Non posso qui, in terra emiliana, non
ricordare un’altra grande figura recentemente scomparsa: Giovan Battista
Cavazzuti, il primo degli innovatori ad entrare nella segreteria nazionale
della Fim-Cisl.
Sono questi gli anni della prima temeraria unità d’azione con Fiom e Uilm, sperimentata già alla fine degli anni Cinquanta a Brescia dal gruppo raccolto intorno a Franco Castrezzati.
Sono anche gli anni della ricerca
positiva dell’autonomia di cui l’incompatibilità tra incarichi sindacali e
politici, diviene conseguenza naturale e procede di pari passo con il percorso
di unità sindacale dal basso.
Quello dell’unità sindacale, come è
noto, sarà uno dei riferimenti principali dell’impegno di Pippo Morelli.
Un “grande balzo interrotto”, per dirla
con Bruno Manghi con i suoi sogni e i suoi deragliamenti, con la sua passione,
radicale e diffusa e i tanti nodi irrisolti, interni ed esterni al mondo del
lavoro.
Lo dico oggi proprio a pochi giorni di distanza dal cinquantennale della fondazione della Federazione Cgil Cisl Uil del luglio del 1972.
La strada di Pippo Morelli ci accompagna
negli anni caldi del '68 e del '69, quelli dei "capelloni alla Cisl di
Milano" e del "potere contro potere", fino ai contratti
nazionali del 1973 e del 1976 e alla lotta democratica contro il terrorismo e
le stragi di stato e per l’affermazione dei diritti civili, sociali e
democratici.
Anni in cui ci si impegnava nella
ridefinizione del potere nei luoghi di lavoro anche attraverso un sapere che
“non ha padrone”. Come ci spiega il “vecchio zio” Bruno Manghi.
Non solo 150 ore, ma anche salute,
sicurezza, medicina del lavoro e diritti di informazione e consultazione.
Ma anche, almeno per Pippo, non solo
sindacato: pensiamo all’esperienza di “Cristiani per il socialismo” e all’impegno
instancabile, personale, da profondo credente, nella campagna del referendum
contro l’abolizione del divorzio. Valori,
come quello delle famiglia,” che si vivono e si testimoniano da “cattolici
adulti, certo non si impongono, men che meno legislativamente.
Una battaglia quella dei Cattolici per
il No al divorzio condotta insieme a Pietro Scoppola, ma, anche, ancora una
volta, a Luigi Macario e a Pierre Carniti.
Pippo, credente, scout, proveniente da
una famiglia importante del cattolicesimo democratico e sociale reggiano fu,
come Carniti, un fulgido interprete della “laicità” della Cisl.
Pippo stava terminando la sua collaborazione con il Centro Studi guidato da Silvio Costantini quando nel 1962-1963 uscì un’interessante dispensa a cura della scuola di formazione della Cisl[4].
Vi era scritto:
“Il sindacato democratico non si propone di elaborare un suo compiuto
sistema filosofico e tanto meno religioso (…) Il movimento sindacale, di fronte
all’incontro di persone di ideologia diversa, non può adagiarsi su schemi
precostituiti ed è sollecitato a porre sempre più attenzione ai valori
fondamentali che determinano la solidarietà tra i lavoratori (…) nessun
lavoratore, aderendo al movimento sindacale, deve sentire mortificata la sua
concezione di vita”.
Emerge una Cisl pensata con le porte
aperte, orgogliosa del proprio pluralismo interno.
Come ha osservato Pierluigi Mele con
parole che sarebbero state certamente condivise da Pippo: “In questo senso il sindacalista della Cisl ripone nella sua autonoma
capacità di giudizio – ossia nella sua perizia laica sulle cose del mondo, e
nella fedeltà ai valori della solidarietà tipica del mondo del lavoro – il
senso” del suo agire[5].
Sono temi importantissimi, ma faremmo un
torto a Pippo Morelli se ci fermassimo qui.
Con lui, in dieci anni di lavoro e di
ricostruzione “mineraria”, ho attraversato anche gli anni ottanta del riflusso
e di un'Occidente e di un capitalismo che, per usare le parole di Beppe
Stoppiglia, "scivolava sempre di più".
La direzione la conosciamo: è il maledetto trionfo di quello che Papa Francesco definisce nei suoi scritti: "economia dello scarto".
Mi spingo oltre: gli anni ottanta e i
primi anni novanta, fino a quando l'ictus lo colpì duramente, sono forse gli
anni più significativi di Pippo Morelli, almeno come elaborazione teorica.
Anni spesso di sconfitte, anche forse di
emarginazione crescente, ma di grande visione. Dalle riflessioni sul sindacato
nel territorio, al dibattito non solo sul "come produrre, ma sul cosa
produrre", all'attenzione al lavoro frammentato, alla formazione
professionale, all’informatizzazione, alle problematiche degli anziani, della
società multiculturale, alle nuove frontiere dell'educazione degli adulti,
anche a partire dalla marginalità.
Fino alla grande questione della conversione ecologica globale ed integrale della società, dell'economia e del sindacato. Del disarmo.
Va ricordato però che, in soli tre anni,
dal 1982 al 1985, Pippo, da segretario generale, costruisce come guida paziente
e impetuosa il “sindacato nuovo” anche in Emilia Romagna.
Un nome per tutti: l’Isfel e quell’idea di un sindacato “bianco” che, proprio con la forza di un’elaborazione concreta che, “non ha padrone”, riesce a contare davvero nell’Emilia rossa. Con la forza delle idee, non solo dei numeri.
Sta qui il senso di ricordare Pippo
Morelli oggi, sta qui il senso di queste parole, di queste tre tracce di
cammino: “Sapere, Libertà, Mondo”.
A queste parole ne affiancherei nel
confronto con l’oggi altre: “Sogno,
cura, servizio”.
Sta proprio qui il lascito, l’invio,
come ha scritto Ivo Lizzola nella postfazione al libro.
In questi tempi “furiosi” di esplosione di disuguaglianze e di guerra, di fragilità strutturale e molteplice, dopo la pandemia, tornare a Pippo Morelli, significa chiederci: "Da dove veniamo"? Ma anche: "chi siamo e dove stiamo andando?."
Se è vero, come affermava Vittorio Foa,
che il passato non ci dà risposte, ma ci aiuta a formulare, meglio, decisive
domande, ripercorrere la strada di Morelli, significa immergersi nel nostro
presente.
Nelle urgenze di un sindacato che deve
essere sempre più prossimo a chi non ha voce, non ha dignità, non ha parole. A
partire dai giovani. Un sindacato, avrebbe detto Pippo Morelli, moltiplicatore
di trasformazione, non di conservazione.
Non solo luogo educativo, ma comunità
educante.
Palestra quotidiana di emancipazione,
relazione, libertà. Pane e rose. Poesia e prosa. Interessi e Ideali.
“Sogno, cura e servizio”, appunto.
Siamo sommersi di parole. Proprio per
questo abbiamo bisogno di metodo, visione e speranza e di saperle tenere
insieme con autenticità.
Parole, ma soprattutto azioni
conseguenti, progettualità per ritrovare quello spazio di impegno condiviso e
collettivo, di cooperazione di comunità inclusiva e di rappresentanza
democratica che significa spostare, senza facili moralismi, il mondo intorno a
noi, anche solo di un millimetro, verso pace, giustizia, fratellanza, amore, rispetto,
dignità.
La nostra bussola, o meglio, “il nostro astrolabio”, per dirla con Don Lorenzo Milani e la scuola di Barbiana.
Concludendo.
Se
vogliamo che la “strada di Pippo” divenga oggi, almeno in parte, patrimonio,
traccia condivisi, dobbiamo ricordarci, come ci ammonisce Jhonny Dotti, che
essere sindacalisti ed in particolare essere sindacalisti della Cisl, non è
solo “funzione”, ma ricerca del senso.
Pippo ci
illumina proprio nel mantenere, nel non disperdere il patrimonio del senso.
Senso di
responsabilità individuale (il “ciascuno è responsabile di tutto di Don Lorenzo
Milani), ma anche sforzo progettuale e collettivo.
Se
l’uomo perde il senso, ci ha detto Jhonny al congresso nazionale della Fim Cisl
a Torino, citando Fabrizio De Andrè è: “come
un cinghiale che fa le equazioni”.
Facciamo
i conti, da oltre trent’anni, con la fine dell’ideologia, ma anche con la crisi
nichilista delle parole.
Pippo
che era attento lettore di Maritain, ma soprattutto di Emanuel Mounier, sapeva
ben distinguere la parola persona dalla parola individuo.
Le
parole non sono i termini binari dell’informatica: le parole, un po’ come il
lavoro, sono misteri di relazioni.
Come
spiegava benissimo Beppe Stoppiglia raccontando di Pippo nelle favelas
brasiliane, il sentimento profondo di solidarietà non ha nulla a che fare con
la ragione. Se l’altro soffre, soffri anche tu.
Ma
questo è il, necessario, punto di partenza. Se il sindacato è figlio della
mediazione tra giustizia e libertà, se sa stare in mezzo, facendo anche dei
compromessi, esso, ci ammoniva con mitezza Pippo, deve sapere guardare avanti,
non rinunciare mai all’orizzonte di senso, significato della Vita.
Un punto
decisivo sta nell’intreccio tra servizi individuali o meglio “personali” e
diritti collettivi, declinati informa non solo collettiva, ma “collettivizzante”,
in altre parole generatrice di comunità.
Ci sono
tantissime esperienze, a cavallo tra territorio e impresa, che necessitano di
una strategia complessiva di inclusione e moltiplicazione. Un po’ come a metà
anni cinquanta con la contrattazione aziendale.
Tornando
alle parole.
Pippo
usava spesso la parola “compagni”.
Spiegava
agli scettici e conservatori, anche nella Cisl, che la radice era “cum panis” coloro che spezzano il pane
insieme.
Allo
stesso tempo se oggi, specialmente in tempo ed economia di guerra, ci insegnano
che la “competizione” è semplicemente “uccidere l’altro”, (e non certo spezzare
il pane insieme!) dobbiamo tornare alla radice vera delle parole: “cum petere”, significa correre e
chiedere, chiederci, insieme.
Non solo
“coscientizzazione”, per citare Paolo Freire, ma sempre di più un sindacato
dell’ascolto come ci ha detto benissimo all’ultimo congresso della Cisl il
segretario generale della Fim Cisl Roberto Benaglia.
La
competizione positiva tiene dentro di sé il senso della relazione e della
dignità. Non esclude in alcun modo il conflitto, né il “diritto e dovere di
dissentire”, ripudia, invece, la guerra e la violenza.
Pippo Morelli
può aiutarci in questo nuovo inizio, in cui insieme alle “competenze”,
occorrono intelligenza emotiva e, perché no, laicamente spirituale.
Un’intelligenza
emotiva e spirituale che sappia rispettare la parola e le parole, ma che non
smetta mai di farsi provocare dalla realtà e di provocarla a sua volta.
Tornare
a Pippo e a Papa Francesco ci mette in cammino verso un sindacato che non può
che essere, insieme, “profezia ed innovazione”, senso della relazione e della
dignità.
Cosa ci
dice in questo 2022, cento anni esatti dalla presa del potere del fascismo,
Pippo Morelli?
Ci dice
che le persone, i lavoratori, gli iscritti, non sono una somma di tessere.
Altrimenti, come ha spiegato sempre Dotti al congresso della Fim, un’App fra
non molto agevolmente ci sostituirà.
Gli
altri sono risposta a una convocazione, sono una passione, una visione, una
compagnia. Non possiamo farne a meno.
La pandemia ci ha insegnato qualcosa di molto importante e che non dobbiamo dimenticare troppo facilmente.
Come ho
compreso leggendo Morelli, ma anche dialogando direttamente con Carniti:
dobbiamo condividere non la nostra potenza, ma la nostra ferita, la nostra
precarietà, la nostra fragilità. Saper ripartire, anche, dalle nostre
sconfitte, dal non sapere dare, sempre e comunque, tutte le risposte.
Pippo
Morelli rifletteva nel 1991, insieme ad Alexander Langer, su una nuova unità
sindacale basata sulla cultura del limite e della sostenibilità.
Proprio
questa cultura ci spiega che il sindacalista e il sindacato, per curare la
società dello scarto, non possono che mettere a disposizione la propria ferita,
il proprio dolore, la propria insufficienza.
E’
questa la strada stretta per costruire principi viventi di solidarietà. Per attraversare
l’incontro cosciente e incosciente di fragilità, la cultura della cura e dei
frammenti. Dalla pluralità condivisa degli sguardi.
Dobbiamo
essere capaci di guardare oltre, capire, anche da un punto di vista
organizzativo e sociale, che non possiamo “fare da soli”.
Pippo ci racconta oggi quindi anche che
il “sindacato da solo non basta” se vogliamo partire e ri-partire da quelle
periferie, del lavoro ed esistenziali, che si trovano nelle nostre città e
metropoli, come nelle aree interne, troppo spesso dimenticate.
Ma Pippo, Beppe, Pierre ci raccontano anche che il sindacato nella rappresentanza e nella rappresentazione del lavoro, non può che essere anello importantissimo, ma non unico, della carovana della dignità che si mette in cammino ogni giorno in tanti luoghi spezzettati di un pianeta interconnesso.
Il sindacato “trionfante” a cavallo
degli anni sessanta e settanta ha fatto anche degli errori.
Ma capì una cosa che, mentre si
“assaltava il cielo”, non era semplice.
Comprese, infatti, che occorrevano investimenti
contrattuali sull’orizzonte di senso e, allo stesso tempo, che erano necessarie
alleanze nella società per la costruzione di una democrazia compiuta e per
rendere effettive ed estese azioni e conquiste.
Sarebbe bello un giorno, solo per fare
un esempio, raccontare l’impegno dell’FLM per la sindacalizzazione non corporativa
delle forze di polizia e, un tentativo, ancor più sconosciuto, ve lo dico come
curiosità, di “confederalizzare” la nascente Associazione dei calciatori.
In questo campo largo ricordiamo non solo le 150 ore, ma anche il, già citato, e troppo dimenticato grande movimento sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e nel territorio.
Quel sindacato “potente” aveva intuito,
anche se non sempre fu conseguente (pensiamo all’insuccesso dei Consigli di
Zona), che la logica dell’E-E doveva prevalere su quella dell’O-O.
E’ il lascito, il sogno e la visione che
ci vengono consegnati oggi. Nel solco di Pippo Morelli.
Sapere, libertà, mondo. Ma anche, lo ripeto un’ultima volta, ascolto, cura, sogno, visione.
Perché, per essere interpreti del futuro
del lavoro, possiamo essere: “dipinti di
cielo e macchiati di terra.”
[2]
Intervento al seminario: Pippo Morelli, interprete del futuro del lavoro,
Reggio Emilia, 20 giugno 2022.
[3] V. Saba,
Un passo che fece storia, in La nascita
della Cisl 1948-1951, Edizioni Lavoro, Roma, 1990.
[4] La Cisl e la sua autonoma collocazione nella
società italiana, in “Il Sindacato nella società democratica”, dispensa del
Centro Studi di Firenze, 1962-1963.
[5] P. Mele,
Parola chiave: laico in F. Vera
Nocentini (a cura di), Sindacalismo e
laicità. Il paradosso della Cisl, Franco Angeli, Milano, 2000.
venerdì 17 giugno 2022
MORELLI, PRODI e QUEL MERCATO DEL LAVORO DA ORIENTARE E TRASFORMARE, a partire dai GIOVANI.
martedì 7 giugno 2022
Pippo Morelli: il 20 giugno la presentazione del libro a Reggio Emilia con Romano Prodi
Si svolgerà il prossimo lunedì 20 giugno dalle 15.30 alle 17.30 presso l'Aula Magna dell'Università di Reggio Emilia l'incontro: "Pippo Morelli: un interprete del futuro del lavoro".
Il seminario, organizzato dalle federazioni nazionali dei metalmeccanici e dei pensionati della Cisl e dalla Cisl Emilia Romagna,
sarà occasione di discussione del libro di Francesco Lauria: "Sapere, Libertà, Mondo. La strada di Pippo Morelli" (Edizioni Lavoro) dedicato al sindacalista reggiano, tra gli ideatori delle 150 ore per il diritto allo studio, già segretario generale della Cisl Emilia Romagna e direttore del "mitico" Centro Studi Nazionale Cisl di Firenze.
Ai lavori prenderanno parte Rosamaria Papaleo, segretaria generale della Cisl Emilia Centrale, Daniela Fumarola, reggente Fnp nazionale, Filippo Pieri segretario generale Cisl Emilia Romagna, il prof. Gian Primo Cella, gli onorevoli Romano Prodi e Pierpaolo Baretta, Chiara Morelli, formatrice nazionale Agesci e figlia di Pippo Morelli, Francesco Lauria, autore del libro.
Concluderà il convegno, che sarà moderato da Ester Crea, il segretario generale della Fim Cisl Roberto Benaglia.
giovedì 21 aprile 2022
“MA PER ANDARE AVANTI…” RIFLESSIONI SU RESISTENZA, GUERRA E 25 APRILE.
“Forse questa mia giornata terrena potrebbe non vedere l’alba di domani. Non mi spaventa la morte. (…) Nell’istante prima del mio tramonto, mi prenderebbe una sola nostalgia: quella di aver poco donato.
Oggi
la mia confessione ultima sarebbe questa: l’odio non è mai stato ospite della
mia casa. Ho creduto in Dio, perché la sua fede è stata la sola ed unica forza
che mi ha sorretto”.
Dal diario di Giorgio Morelli, nome di battaglia “Il Solitario”, 9 agosto 1947, due giorni prima di morire.
1. Due nonni agli antipodi eppure entrambi
costruttori della nostra democrazia.
Mi sono sempre chiesto quanto
forte fosse il mio debito, anche da un punto di vista generazionale, nei
confronti dei miei due nonni: Anesio Finardi, partigiano cristiano (e
democristiano) nativo della bassa parmense e Francesco Lauria (porto il suo
nome), originario della Val d’Agri, in Basilicata, comunista ed esponente della
Cgil, a lungo confinato dal fascismo a Perdasdefogu, in Sardegna.
Nonno Anesio scomparve, dopo
una dolorosa malattia nel 1960, quando mia madre aveva solo undici anni; nonno
Ciccio, quasi improvvisamente, circa due anni prima che io nascessi, nel 1977.
Pur non avendoli conosciuti ho
sempre pensato come rappresentassero una perfetta sintesi della pluralità,
anche geografica, non solo ideologica, dell’impegno antifascista.
I rapporti con l’istituto e
con l’Anpi, già allora non erano sempre semplici: come in molti Istituti
Storici della Resistenza sparsi per l’Italia si viveva sempre con un misto di
“obbligo di collaborazione” e di dialettica politica e identitaria permanente,
specialmente quando le attività delle associazioni resistenziali si
confrontavano con i temi dell’attualità politica, internazionale, nazionale e
locale.
2.
Alle radici di un impegno. La testimonianza di Giovanni Bianchi, primo
presidente A(n)PC non partigiano.
Ritengo che sia naturale che
nell’agone politico ci si confronti non solo con gli ideali, ma anche con gli
interessi e che sia giusto contestualizzare l’azione delle associazioni nel
tempo che esse si ritrovano a vivere, con tutte le difficoltà.
Detto ciò, ritengo anche che,
per affrontare con pragmatismo un tempo così difficile, occorra tornare alle
radici profonde dell’impegno e delle scelte, in particolare quella della
Resistenza.
Ho incontrato di nuovo l’Apc
con la presidenza di quello che per me e molti giovani è e sarà sempre un
eccezionale maestro: Giovanni Bianchi.
Giovanni era stato eletto nel
2012 ed era il primo presidente dell’A(n)pc a non aver partecipato, per ragioni
anagrafiche, alla Resistenza.
Di fronte alla nascita di
nuove “sezioni” del’A(n)Pc le sue parole possono oggi ritornare assolutamente
utili.
Decidemmo insieme di
intitolare: “Tornare a Camaldoli”,
l’intervista che gli feci per la rivista “Contromano”.
Chiesi come affrontava questo
impegno così simbolicamente importante di Presidente dellA(n)PC:
Rispose così: “E’ la politica e meglio ancora la cultura
politica che tiene insieme una grande associazione popolare. Perché la grande
politica (e non la tattica o le convenienze) le conferisce una radice, un
destino e quindi una missione. Cultura politica non significa idee che passano
da libro a libro, ma il vissuto collettivo su un territorio e dentro una storia
della quale si ha coscienza perché si continua a farne memoria.
Quando
si strappano o si dimenticano le radici in genere si evocano i fantasmi del
nuovismo, ma la perdita delle radici e della memoria consente soltanto di
passare dal vecchio al vuoto. Guidare una grande associazione confrontandosi
con le aggressioni dell’anagrafe significa soprattutto tenere culturalmente e
concretamente insieme passato e futuro. Le grandi idealità del passato e gli
esempi capaci di “contaminare” e affascinare le nuove generazioni. Chi ha il
coraggio della discontinuità deve avere acuto il senso della storia: la grande
politica è in grado di andare anche “contro” la storia, perché la conosce, la
rispetta, sa che è indispensabile miniera nella quale è bene continuare a
discendere.”
Una delle prima idee di
Bianchi fu quella di promuovere gruppi di incontro intergenerazionali sul
rapporto tra “Resistenza e Costituzione”
introducendo anche il tema dell’art.11 e del ripudio della guerra:
L’ex presidente nazionale
delle Acli la spiegava così: “Una grande
epopea popolare come la Resistenza rischia la noia delle liturgie ripetute. I
protagonisti di allora sono tutti da tempo avviati verso l’altra sponda. I
superstiti hanno tenuto e tengono ancora alta la fiaccola, ma i più baldi hanno
superato gli ottantacinque anni (era il 2013 ndR). L’idea va letta in questa
prospettiva: messa in comune di storie ed energie con la possibilità concreta
di aprire alle nuove generazioni. Fu Dossetti a indicare il legame profondo tra
Resistenza e Costituzione. Nel senso che il patrimonio antropologico e ideale
della Resistenza trova sbocco e architettura nella “più bella Costituzione del
mondo”.
Continuava, con parole
attualissime:
“La
Costituzione non è leggibile infatti (si pensi all’articolo 11 e a quel verbo
inedito che recita “l’Italia ripudia la guerra”) senza la pressione della
seconda guerra mondiale e la spinta di ideale delle Resistenze europee. Sarebbe
sufficiente una rilettura dei testi poetici e teatrali di padre Turoldo a
ricreare una irripetibile atmosfera. Possiamo risalire all’epopea
resistenziale, connubio di lotta armata sui monti e trasformazione delle
coscienze nelle città, a partire dalla codificazione degli articoli forgiati
alla Costituente. L’idea ha cominciato a funzionare. Il ponte tra le
generazioni vede la costruzione delle prime campate, pur lavorando con i “mezzi
poveri” consigliati da Giuseppe Lazzati.”
Da Presidente dell’Apc
Giovanni Bianchi si confrontava con il vento del tutto inedito in quel 2013,
rappresentato da Papa Francesco. La sue parole ci danno il senso dell’impegno
cristiano in tempi difficili e alla ricerca di “testimoni”:
Aggiungeva: “La prima enciclica di Papa Francesco
consiste nel nome. Il papa gesuita che indica per il discernimento e per la
pratica le “periferie esistenziali”. Il cristianesimo ha bisogno di riflettere
non soltanto sul rapporto con l’illuminismo, ma sui luoghi che ne sollecitano
l’incarnazione e la testimonianza. (…) Occorre tornare, come invitava padre
Turoldo, “a riprendere i nomi di battaglia, indossare le armi della luce”
significa testimoniare, assumerci i rischi della condizione umana in questa
complicata fase storica. Anche in Italia, i punti di riferimento non mancano.
Da don Tonino Bello al cardinale Martini, a don Luigi Ciotti, per restare tra i
presbiteri.
Quanto
alla speranza, mi pare di poter dire con Mounier che essa non è parente
prossima dell’ottimismo di maniera o di quello delle agenzie finanziarie. Non
abbiamo ricette. Perfino gli economisti che si erano rifugiati in cerca di
sicurezze scientifiche nei metodi econometrici hanno fallito. Dobbiamo provare
a fare esperienze, sapendo che non tutte andranno a buon fine, ma senza il
coraggio del rischio non si praticano le virtù civili e neppure il dovere del
cristiano chiamato a perdere la propria vita.”
Il coraggio del rischio mi fa
pensare a lui, da Presidente delle Acli, a Sarajevo nella difficile e
controversa seconda marcia Mir Sada, nel 1993.
3.L’attualità
di un messaggio di fronte alla possibilità di una guerra totale
Di fronte all’esplosione della
guerra in Europa, al grido di dolore che ci viene dall’Ucraina, ai milioni di
profughi, alla possibilità del disastro atomico, al riarmo diffuso, qual è il
senso di attualità di quelle parole?
Bianchi ci ha lasciati nel
mezzo dell’estate del 2017.
Un mese dopo la scomparsa del
Presidente dell’Apc, il quotidiano Avvenire pubblicò un suo intervento inedito
che riprendeva il filo dell’ultimo e discusso libro da lui curato: “Resistenza senza fucile”.
Il quotidiano titolava così. “Giovanni
Bianchi: «La resistenza sia senza odio». A un mese dalla scomparsa del politico cattolico una riflessione dove
descrive l'impegno partigiano, sull'esempio di Dossetti e Gorrieri, con lo
spirito di chi al fucile antepone la risposta etica”.
Scriveva l’ex presidente delle
Acli e di Apc, per l’ultima volta:
“Aveva
ragione Norberto Bobbio quando affermava che il nostro Paese era fatto di
«diversamente credenti» dove i cattolici semmai hanno una caratteristica.
Ho
titolato il mio libro Resistenza senza fucile. I cattolici non è che fossero
pacifisti, magari qualcuno sì. L’unico che ha partecipato a tutte le azioni
disarmato è stato Giuseppe Dossetti sull’Appennino reggiano. Su quello modenese
c’era Ermanno Gorrieri, sarà ministro del lavoro, che sparava cercando di
mirare giusto. La differenza è in un’altra modalità di condurre la guerra, lo
dice Gorrieri «Noi cercavamo di non fare stragi inutili e fare morti inutili».
Chi
definisce meglio questa modalità dei cattolici, ma lo ripeto non è pacifismo,
combattendo senza armi, a mani nude, è Ezio Franceschini (sarà rettore
dell’Università Cattolica di Milano): «Noi cattolici abbiamo imparato a
combattere senza odiare». Non è che se prendi una pallottola da uno che non ti
odia non ti fa secco, però è diversa la modalità, il modo di affrontare il
nemico. Io avevo una grande amicizia con Sergio Gigliotti, uno dei capi
sull’Appennino parmense, scomparso un anno fa e vice presidente dei partigiani
cristiani. Faceva il liceo a Genova e trovandosi sull’Appennino parmense si è
aggregato ai partigiani. Farà la maturità classica alla fine della lotta di
Liberazione con un tema, che avrei voluto leggere, intitolato Dante partigiano
cristiano. Questo per dire qual era l’animo”.
C’è una riflessione conclusiva
nell’articolo di Bianchi su Avvenire che mi ha fatto venire in mente la
polemica tra Anpi e Apc di queste
settimane e la riflessione, anch’essa divisiva, sull’aumento delle spese
militari e l’invio di armi. Una polemica che, con l’avvicinarsi del 25 aprile,
si è ulteriormente rinfocolata anche all’interno della stessa Anpi.
Viviamo una strana situazione
in cui le associazioni partigiane sembrano diventare, troppo spesso, luogo
privilegiato di polemica spesso fine a se stessa e non di dialogo. Protagoniste
e, insieme vittime, a mio parere, di un’ansia “dichiarazionista” poco
giustificabile e utile e che ha perso, almeno in parte, il senso della misura e
anche della proporzione della tragedia che si sta consumando in Ucraina e
soprattutto la necessità di impegnarsi per una soluzione diplomatica e il
cessare urgente delle armi.
Scriveva Bianchi nel suo
contributo...
“Vado
alla conclusione con un altro episodio raccontato dall’amico ebreo Stefano Levi
Della Torre, grande architetto, uno dei rappresentanti della comunità ebraica
milanese.
Una
volta mi spiegò, cosa che mi ha lasciato impressionato, che suo padre, partigiano
in 'Giustizia e Libertà', dopo la Liberazione si trovava con un amico delle
brigate Garibaldi una volta al mese. Sapete cosa facevano? Una volta al mese
uno sosteneva le ragioni dell’altro! Un esempio stupendo di che cosa può essere
la democrazia, l’ascolto, la comprensione. Una di quelle modalità che, comunque
collocate nella Resistenza, ci spiegano come quelle persone abbiano provato a
combattere senza odio.”
Un esempio che mi piacerebbe
pensare avesse potuto essere seguito dai miei due nonni democristiano e
comunista.
Concludeva il Presidente
dell’Associazione Partigiani Cristiani con un tema di stringente attualità:
“Mi
sembra davvero una cosa attorno alla quale riflettere. Se poi si viene all’oggi
in un periodo nel quale si vendono armi a gogò. Pensate al viaggio di Trump in
Arabia Saudita, contratti iper miliardari e con una scelta molto precisa dei
Sunniti wahabiti, ossia quelli che stanno con l’Isis. Per carità non è che gli
Sciiti siano tutte brave persone.
In una fase nella quale papa
Francesco ci dice che è incominciata la terza guerra mondiale a pezzetti e
capitoli. O questo papa dice barzellette ai funerali, o bisognerà prenderlo sul
serio. Cos’è questa terza guerra mondiale?”
Sulla terza guerra mondiale Bianchi giustamente citava Carl Schmitt: “Mi viene in mente Carl Schmitt, grande giurista, perfino filo nazista, ma un’intelligenza acutissima, che negli anni ’60 disse «è incominciata la terza guerra mondiale». Ed è una guerra civile combattuta da terroristi: è la radiografia.”
4.Resistenza
europea e ricerca della Pace di fronte alla terza guerra mondiale a pezzi.
Bianchi ricordò, in quello
scritto, anche il simbolo antinazista della Rosa Bianca tedesca. Un’immagine che ci consegna il tema della
Resistenza europea e del superamento dei nazionalismi.
Scriveva:
“Non
voglio rovinare le notti a nessuno, ma quando uno va a scavare nella storia non
è che si ferma a mettere un’altra lapide. Si chiede cosa stiamo costruendo,
come è possibile.
Chiudo
con una bella immagine della piccola, ma importante, resistenza tedesca: 'La
Rosa Bianca'. Questi ragazzi di Monaco di Baviera, studenti, che si ritrovano
alla sera per leggere i classici tedeschi, hanno fatto sei volantini in tutto
che mettevano in giro, all’Università, nelle guide delle cabine telefoniche.
La
cosa incredibile è questa: li prendono e il tribunale del popolo nazista di
Monaco di Baviera li giudica alla mattina e li ghigliottinano nel pomeriggio,
tale il timore che potesse il contagio attecchire. Ma la cosa stupenda è che
uno dei ragazzi che vanno alla ghigliottina si rivolge all’altro e dice
«comunque ci rivediamo fra dieci minuti».
Uno
che ha il fegato di dire una cosa così testimonia una speranza, che non è
l’ottimismo, ma un’altra cosa di estremamente positivo e motivante anche per
l’oggi e per il futuro.
Credo
che riandare a vedere i fatti della Resistenza in questo modo ti arricchisce,
non è soltanto fare memoria. La memoria è essenziale, ma è un modo per creare
un punto di vista, per guardare la vicenda nella quale, a qualche titolo, siamo
dentro, ma per andare avanti.”
Il tema dell’orizzonte europeo
è stato al centro del congresso del 2019 dell’Anpc, che ritroviamo nelle parole
dell’allora Presidente Beppe Matulli:
“La
proposta a questo congresso, di individuare nel compimento della Unione
Politica Europea, l’obiettivo della nostra iniziativa, non costituisce una
prospettiva “altra” rispetto alla lotta di liberazione combattuta
settantacinque anni fa. Non lo è, non soltanto per una interpretazione
“aggiornata” dello spirito libertario dei resistenti di allora, ma anche perché
la prospettiva europea era ampiamente presente nel pensiero antifascista, e si
fece ancora più acuto negli esuli e nei confinati.
Soltanto
per ricordare alcuni esempi illustri, ma non certamente i soli, la prospettiva
europea è fondamentale nella visione (e nella esperienza) internazionale di
Luigi Sturzo, lo è nella riflessione di Carlo Rosselli che scriveva il 17
maggio 1935 su Giustizia e Libertà, “… in questa tragica vigilia non esiste
altra salvezza. Non esiste, per la sinistra europea, altra politica estera.
Stati Uniti d’Europa. Assemblea europea. Il resto è flatus voci, il resto è la
catastrofe”.
Per
ricordare infine il punto più alto della iniziativa europeista di allora
nell’appello di Ventotene di Spinelli, Rossi, Colorni che continua a costituire
un punto di riferimento storico e culturale.”
Certamente c’è chi etichetterà
queste riflessioni come un discorso da divano o da tastiera, inutile, quasi
irritante di fronte alla tragedia della guerra.
Siamo stati davvero immersi in
una contraddittoria Pasqua di guerra,
come ben si leggeva negli occhi di Papa Francesco in una Piazza San Pietro
gremita come non si vedeva da molto tempo. Un’immagine preceduta da un’altra
che rimarrà nella memoria: due giovani donne, una ucraina e una russa, che
hanno retto insieme la Croce nel Venerdì Santo.
La storia ci consegna una responsabilità
e la consegna anche a coloro che guidano le associazioni partigiane oggi. Apc e
Anpi in primis. Queste associazioni hanno un valore di memoria ed educativo,
non devono diventare uno strumento dei partiti o dei supplenti impropri
nell’assenza degli stessi.
Penso sia molto importante,
nell’impegno concreto e vissuto, saper leggere la complessità del nostro
presente, specialmente se si è portatori di un lascito così importante.
La memoria della Resistenza e
dell’antifascismo ci pone di fronte al superamento di due alibi entrambi
pericolosi.
Il primo è quello del “non
sapevamo”. Il secondo è quello che l’odio, la considerazione di fare parte di
una fantomatica “civiltà superiore”, magari osannata da improbabili “atei
devoti” siano necessari alla vittoria, in una sempre più pericolosa
accettazione dell’inevitabilità della guerra.
Ha scritto bene Riccardo Redaelli nell’editoriale della
prima pagina di Avvenire di sabato 9 aprile:
(…)
Ora, sempre più chiaramente, si notano tendenze a uno scivolamento verso
visioni manichee che suonano estremamente pericolose.
Da
un lato, c’è la polarizzazione fra diritto alla difesa e diritto alla pace che
banalizza, o peggio criminalizza, il tentativo di far comprendere come lo
strumento militare, che gli Stati hanno il diritto di usare per difendersi, non
possa mai essere un fine, ma solo un ben proporzionato mezzo, teso a evitare lo
scoppio stesso dei conflitti o a spingere alla pace il prima possibile. Ma è un
mezzo che si deve cercare di non usare mai.
Dall’altro
lato, emerge una strana e inaccettabile
fascinazione per la guerra stessa. Giustamente si documentano e denunciano
gli orrori che le forze armate russe stanno compiendo, ma allo stesso tempo ci
si esalta per la resistenza ucraina, si mobilitano volontari, mentre i nostri
media raccontano a volte con trasporto quanti «soldati del nemico» siano stati
uccisi. Dimenticando che spesso si tratta di giovani reclute strappate dalle
lontane regioni periferiche dell’immenso retroterra russo, carne da cannone
buttata all’attacco da un crudele autocrate e dalla sua corte di sicofanti.
Per
essere chiari, ancora una volta, abbiamo chiaro che in questo conflitto vi è un
aggressore e un aggredito. E che chi subisce l’attacco ha tutto il diritto di
difendersi e di essere aiutato nella difesa. Ma non possiamo neppure scordare
come ogni conflitto sia una ininterrotta scia di sangue, di violenza che si
abbatte soprattutto sui civili indifesi. Che gli orrori non avvengono mai da
una sola parte e che "guerra" significa sempre e solo sangue,
lacrime, morte, fame. Non vi è nulla di affascinante nello scontro militare. E
in esso non c’è nient’altro che l’orrore di esseri umani che uccidono altri
esseri umani. Il nostro imperativo di europei, è, sì, quello di aiutare
l’Ucraina, ma al fine di fermare la guerra il prima possibile.
Non
per 'regolare i conti' con la Russia, per piegarla e marginalizzarla nel
sistema internazionale. E nemmeno per disumanizzare i suoi abitanti:
«Combattiamo contro invasori che non hanno più nulla di umano», ha detto il
presidente Zelensky. Non è così, perché sono infiniti i conflitti anche
contemporanei che mostrano gli stessi orrori traumatizzanti di Bucha, di
Kramatorsk, di Mariupol... Sono gli esseri umani che fanno le guerre, non i
mostri. Ed è compito di tutte le donne e di tutti gli uomini cercare ogni mezzo
per arrivare a una tregua. Primo passo verso una pace vera.
Per
colpire economicamente la Russia, ci si affanna a cercare fornitori di energia
alternativi bussando a governi che praticano abitualmente la tortura, reprimono
il dissenso, o che sono stati coinvolti in altri conflitti regionali. Si
progetta l’invio crescente di armamenti – ed è chiaro che per qualcuno
l’obiettivo è 'impantanare' Mosca, prolungando la guerra – e si parla sempre
più della possibilità che l’Ucraina vinca militarmente, rendendo più flebili le
voci e i tentativi di far tacere le armi e trovare le strade per un accordo.
Come se vi fosse un che di sinistramente affascinante, di romanticamente eroico
nella guerra. Ma i tanti morti, i bambini che non cresceranno mai, i giovani
ancora adolescenti di entrambi gli schieramenti uccisi nella loro divisa, gli
orfani, le distruzioni immani, le famiglie sradicate dalle loro case distrutte
ci riportano alla dura, cruda, brutale realtà.
Non c’è nulla nella guerra che
giustifichi il nostro incantamento e il nostro incitamento. Riserviamoli per la
pace, quando riusciremo a farla sbocciare.”
Sono tutti temi presenti e
molto approfonditi nel libro di Papa, Francesco, uscito poco prima della Pasqua
a cura della Libreria Editrice Vaticana: “Contro la guerra. Il coraggio di costruire
la Pace” che riporta gli interventi pronunciati negli ultimi anni in
particolare sulla necessità del disarmo globale.
5.
Andare avanti, alla vigilia del 25 aprile 2022.
Alla vigilia del 25 aprile (e
della marcia straordinaria Perugia.Assisi che lo precederà) in questa primavera
del 2022 che ci pone ad un secolo esatto dalla presa del potere di Mussolini, a
ottanta anni ormai dalla Resistenza, stiamo perdendo gli ultimi testimoni
diretti. Proprio per questo non possiamo dimenticare l’insegnamento dei
credenti e dei diversamente credenti che hanno saputo combattere senza odio e
hanno saputo impegnarsi per la pace, per la democrazia e per il dialogo europeo
e mondale tra i popoli (pensiamo a Giuseppe Dossetti, ma anche ad Alcide De
Gasperi e a Giorgio La Pira).
Se vogliamo davvero “andare avanti”, dobbiamo metterci
insieme in cammino davvero sui “sentieri partigiani”, come li chiamava Pippo
Morelli, sindacalista e fratello di Giorgio, Il Solitario, partigiano cristiano
vittima delle violenze del “triangolo rosso” a Reggio Emilia.
I “sentieri partigiani”
venivano rilanciati all’inizio degli anni ’90, all’indomani del celebre “chi sa
parli” scritto da Otello Montanari.
Oggi come allora non servono
posizionamenti tattici, frazionismi, esplosioni identitarie, riflessioni
frettolose.
Servono, insieme ad unità e
pluralismo, l’etica e la memoria del viandante. Non quella dei sedentari. Non
abbiamo bisogno di medaglie, musei, liturgie, ma del passaggio e del rilancio
dei valori e delle idee forza di generazione in generazione, nell’ottica del
dono, non del possesso.
L’urgenza e l’urlo del tempo
presente, l’esplosione di una possibile “guerra totale” e l’orrore della guerra
e delle guerre che già ci sono, impongono, direbbe don Lorenzo Milani, di non:
“bestemmiare il nostro tempo”.
Dobbiamo lavorare di più con i
giovani, verso quella generazione che in un bell’intervento al recente
congresso nazionale dell’Anpi è stata definita la generazione che, scegliendo
la pace, dovrà prendere in mano la cura del mondo e il cambiamento della
storia.
Ci dice, inascoltato, il Papa
che dobbiamo avere “il coraggio di costruire la Pace”, ed erodere anche dai
nostri immaginari, prima ancora che dalle nostre politiche, la guerra “pluridimensionale”, come l’ha
definita Fulvio De Giorgi in un
interessante approfondimento pubblicato dal portale www.c3dem.it
Insieme alla pace dobbiamo
difendere la democrazia, con il coraggio di affrontare un conflitto sempre più
multilaterale che sembra sempre più farsi strada come destino ineluttabile in
un presente ancora troppo incapace, allo stesso tempo, di memoria, consapevolezza,
visione e mobilitazione.
Francesco
Lauria, 21 aprile 2022.
PIPPO MORELLI, INTERPRETE DEL FUTURO DEL LAVORO. GUARDA LA REGISTRAZIONE DEGLI INTERVENTI SU YOUTUBE
Sul canale YouTube del Centro Studi Ricerca e Formazione Cisl è disponibile la registrazione dell'incontro di presentazione del libro...
-
Gli emiliano romagnoli conoscono bene il neo Ministro dell'Istruzione del (variegato) Governo Draghi: Patrizio Bianchi. Ferrarese, class...
-
E' difficile spiegare la sensazione che si prova avvicinando un traguardo, ma soprattutto un cammino, dopo tanti anni di lavoro e di ric...
-
Pubblicato su: https://www.adista.it/articolo/67944 “Forse questa mia giornata terrena potrebbe non vedere l’alba di domani. Non mi spaventa...