“Forse questa mia giornata terrena potrebbe non vedere l’alba di domani. Non mi spaventa la morte. (…) Nell’istante prima del mio tramonto, mi prenderebbe una sola nostalgia: quella di aver poco donato.
Oggi
la mia confessione ultima sarebbe questa: l’odio non è mai stato ospite della
mia casa. Ho creduto in Dio, perché la sua fede è stata la sola ed unica forza
che mi ha sorretto”.
Dal diario di Giorgio Morelli, nome di battaglia “Il Solitario”, 9 agosto 1947, due giorni prima di morire.
1. Due nonni agli antipodi eppure entrambi
costruttori della nostra democrazia.
Mi sono sempre chiesto quanto
forte fosse il mio debito, anche da un punto di vista generazionale, nei
confronti dei miei due nonni: Anesio Finardi, partigiano cristiano (e
democristiano) nativo della bassa parmense e Francesco Lauria (porto il suo
nome), originario della Val d’Agri, in Basilicata, comunista ed esponente della
Cgil, a lungo confinato dal fascismo a Perdasdefogu, in Sardegna.
Nonno Anesio scomparve, dopo
una dolorosa malattia nel 1960, quando mia madre aveva solo undici anni; nonno
Ciccio, quasi improvvisamente, circa due anni prima che io nascessi, nel 1977.
Pur non avendoli conosciuti ho
sempre pensato come rappresentassero una perfetta sintesi della pluralità,
anche geografica, non solo ideologica, dell’impegno antifascista.
I rapporti con l’istituto e
con l’Anpi, già allora non erano sempre semplici: come in molti Istituti
Storici della Resistenza sparsi per l’Italia si viveva sempre con un misto di
“obbligo di collaborazione” e di dialettica politica e identitaria permanente,
specialmente quando le attività delle associazioni resistenziali si
confrontavano con i temi dell’attualità politica, internazionale, nazionale e
locale.
2.
Alle radici di un impegno. La testimonianza di Giovanni Bianchi, primo
presidente A(n)PC non partigiano.
Ritengo che sia naturale che
nell’agone politico ci si confronti non solo con gli ideali, ma anche con gli
interessi e che sia giusto contestualizzare l’azione delle associazioni nel
tempo che esse si ritrovano a vivere, con tutte le difficoltà.
Detto ciò, ritengo anche che,
per affrontare con pragmatismo un tempo così difficile, occorra tornare alle
radici profonde dell’impegno e delle scelte, in particolare quella della
Resistenza.
Ho incontrato di nuovo l’Apc
con la presidenza di quello che per me e molti giovani è e sarà sempre un
eccezionale maestro: Giovanni Bianchi.
Giovanni era stato eletto nel
2012 ed era il primo presidente dell’A(n)pc a non aver partecipato, per ragioni
anagrafiche, alla Resistenza.
Di fronte alla nascita di
nuove “sezioni” del’A(n)Pc le sue parole possono oggi ritornare assolutamente
utili.
Decidemmo insieme di
intitolare: “Tornare a Camaldoli”,
l’intervista che gli feci per la rivista “Contromano”.
Chiesi come affrontava questo
impegno così simbolicamente importante di Presidente dellA(n)PC:
Rispose così: “E’ la politica e meglio ancora la cultura
politica che tiene insieme una grande associazione popolare. Perché la grande
politica (e non la tattica o le convenienze) le conferisce una radice, un
destino e quindi una missione. Cultura politica non significa idee che passano
da libro a libro, ma il vissuto collettivo su un territorio e dentro una storia
della quale si ha coscienza perché si continua a farne memoria.
Quando
si strappano o si dimenticano le radici in genere si evocano i fantasmi del
nuovismo, ma la perdita delle radici e della memoria consente soltanto di
passare dal vecchio al vuoto. Guidare una grande associazione confrontandosi
con le aggressioni dell’anagrafe significa soprattutto tenere culturalmente e
concretamente insieme passato e futuro. Le grandi idealità del passato e gli
esempi capaci di “contaminare” e affascinare le nuove generazioni. Chi ha il
coraggio della discontinuità deve avere acuto il senso della storia: la grande
politica è in grado di andare anche “contro” la storia, perché la conosce, la
rispetta, sa che è indispensabile miniera nella quale è bene continuare a
discendere.”
Una delle prima idee di
Bianchi fu quella di promuovere gruppi di incontro intergenerazionali sul
rapporto tra “Resistenza e Costituzione”
introducendo anche il tema dell’art.11 e del ripudio della guerra:
L’ex presidente nazionale
delle Acli la spiegava così: “Una grande
epopea popolare come la Resistenza rischia la noia delle liturgie ripetute. I
protagonisti di allora sono tutti da tempo avviati verso l’altra sponda. I
superstiti hanno tenuto e tengono ancora alta la fiaccola, ma i più baldi hanno
superato gli ottantacinque anni (era il 2013 ndR). L’idea va letta in questa
prospettiva: messa in comune di storie ed energie con la possibilità concreta
di aprire alle nuove generazioni. Fu Dossetti a indicare il legame profondo tra
Resistenza e Costituzione. Nel senso che il patrimonio antropologico e ideale
della Resistenza trova sbocco e architettura nella “più bella Costituzione del
mondo”.
Continuava, con parole
attualissime:
“La
Costituzione non è leggibile infatti (si pensi all’articolo 11 e a quel verbo
inedito che recita “l’Italia ripudia la guerra”) senza la pressione della
seconda guerra mondiale e la spinta di ideale delle Resistenze europee. Sarebbe
sufficiente una rilettura dei testi poetici e teatrali di padre Turoldo a
ricreare una irripetibile atmosfera. Possiamo risalire all’epopea
resistenziale, connubio di lotta armata sui monti e trasformazione delle
coscienze nelle città, a partire dalla codificazione degli articoli forgiati
alla Costituente. L’idea ha cominciato a funzionare. Il ponte tra le
generazioni vede la costruzione delle prime campate, pur lavorando con i “mezzi
poveri” consigliati da Giuseppe Lazzati.”
Da Presidente dell’Apc
Giovanni Bianchi si confrontava con il vento del tutto inedito in quel 2013,
rappresentato da Papa Francesco. La sue parole ci danno il senso dell’impegno
cristiano in tempi difficili e alla ricerca di “testimoni”:
Aggiungeva: “La prima enciclica di Papa Francesco
consiste nel nome. Il papa gesuita che indica per il discernimento e per la
pratica le “periferie esistenziali”. Il cristianesimo ha bisogno di riflettere
non soltanto sul rapporto con l’illuminismo, ma sui luoghi che ne sollecitano
l’incarnazione e la testimonianza. (…) Occorre tornare, come invitava padre
Turoldo, “a riprendere i nomi di battaglia, indossare le armi della luce”
significa testimoniare, assumerci i rischi della condizione umana in questa
complicata fase storica. Anche in Italia, i punti di riferimento non mancano.
Da don Tonino Bello al cardinale Martini, a don Luigi Ciotti, per restare tra i
presbiteri.
Quanto
alla speranza, mi pare di poter dire con Mounier che essa non è parente
prossima dell’ottimismo di maniera o di quello delle agenzie finanziarie. Non
abbiamo ricette. Perfino gli economisti che si erano rifugiati in cerca di
sicurezze scientifiche nei metodi econometrici hanno fallito. Dobbiamo provare
a fare esperienze, sapendo che non tutte andranno a buon fine, ma senza il
coraggio del rischio non si praticano le virtù civili e neppure il dovere del
cristiano chiamato a perdere la propria vita.”
Il coraggio del rischio mi fa
pensare a lui, da Presidente delle Acli, a Sarajevo nella difficile e
controversa seconda marcia Mir Sada, nel 1993.
3.L’attualità
di un messaggio di fronte alla possibilità di una guerra totale
Di fronte all’esplosione della
guerra in Europa, al grido di dolore che ci viene dall’Ucraina, ai milioni di
profughi, alla possibilità del disastro atomico, al riarmo diffuso, qual è il
senso di attualità di quelle parole?
Bianchi ci ha lasciati nel
mezzo dell’estate del 2017.
Un mese dopo la scomparsa del
Presidente dell’Apc, il quotidiano Avvenire pubblicò un suo intervento inedito
che riprendeva il filo dell’ultimo e discusso libro da lui curato: “Resistenza senza fucile”.
Il quotidiano titolava così. “Giovanni
Bianchi: «La resistenza sia senza odio». A un mese dalla scomparsa del politico cattolico una riflessione dove
descrive l'impegno partigiano, sull'esempio di Dossetti e Gorrieri, con lo
spirito di chi al fucile antepone la risposta etica”.
Scriveva l’ex presidente delle
Acli e di Apc, per l’ultima volta:
“Aveva
ragione Norberto Bobbio quando affermava che il nostro Paese era fatto di
«diversamente credenti» dove i cattolici semmai hanno una caratteristica.
Ho
titolato il mio libro Resistenza senza fucile. I cattolici non è che fossero
pacifisti, magari qualcuno sì. L’unico che ha partecipato a tutte le azioni
disarmato è stato Giuseppe Dossetti sull’Appennino reggiano. Su quello modenese
c’era Ermanno Gorrieri, sarà ministro del lavoro, che sparava cercando di
mirare giusto. La differenza è in un’altra modalità di condurre la guerra, lo
dice Gorrieri «Noi cercavamo di non fare stragi inutili e fare morti inutili».
Chi
definisce meglio questa modalità dei cattolici, ma lo ripeto non è pacifismo,
combattendo senza armi, a mani nude, è Ezio Franceschini (sarà rettore
dell’Università Cattolica di Milano): «Noi cattolici abbiamo imparato a
combattere senza odiare». Non è che se prendi una pallottola da uno che non ti
odia non ti fa secco, però è diversa la modalità, il modo di affrontare il
nemico. Io avevo una grande amicizia con Sergio Gigliotti, uno dei capi
sull’Appennino parmense, scomparso un anno fa e vice presidente dei partigiani
cristiani. Faceva il liceo a Genova e trovandosi sull’Appennino parmense si è
aggregato ai partigiani. Farà la maturità classica alla fine della lotta di
Liberazione con un tema, che avrei voluto leggere, intitolato Dante partigiano
cristiano. Questo per dire qual era l’animo”.
C’è una riflessione conclusiva
nell’articolo di Bianchi su Avvenire che mi ha fatto venire in mente la
polemica tra Anpi e Apc di queste
settimane e la riflessione, anch’essa divisiva, sull’aumento delle spese
militari e l’invio di armi. Una polemica che, con l’avvicinarsi del 25 aprile,
si è ulteriormente rinfocolata anche all’interno della stessa Anpi.
Viviamo una strana situazione
in cui le associazioni partigiane sembrano diventare, troppo spesso, luogo
privilegiato di polemica spesso fine a se stessa e non di dialogo. Protagoniste
e, insieme vittime, a mio parere, di un’ansia “dichiarazionista” poco
giustificabile e utile e che ha perso, almeno in parte, il senso della misura e
anche della proporzione della tragedia che si sta consumando in Ucraina e
soprattutto la necessità di impegnarsi per una soluzione diplomatica e il
cessare urgente delle armi.
Scriveva Bianchi nel suo
contributo...
“Vado
alla conclusione con un altro episodio raccontato dall’amico ebreo Stefano Levi
Della Torre, grande architetto, uno dei rappresentanti della comunità ebraica
milanese.
Una
volta mi spiegò, cosa che mi ha lasciato impressionato, che suo padre, partigiano
in 'Giustizia e Libertà', dopo la Liberazione si trovava con un amico delle
brigate Garibaldi una volta al mese. Sapete cosa facevano? Una volta al mese
uno sosteneva le ragioni dell’altro! Un esempio stupendo di che cosa può essere
la democrazia, l’ascolto, la comprensione. Una di quelle modalità che, comunque
collocate nella Resistenza, ci spiegano come quelle persone abbiano provato a
combattere senza odio.”
Un esempio che mi piacerebbe
pensare avesse potuto essere seguito dai miei due nonni democristiano e
comunista.
Concludeva il Presidente
dell’Associazione Partigiani Cristiani con un tema di stringente attualità:
“Mi
sembra davvero una cosa attorno alla quale riflettere. Se poi si viene all’oggi
in un periodo nel quale si vendono armi a gogò. Pensate al viaggio di Trump in
Arabia Saudita, contratti iper miliardari e con una scelta molto precisa dei
Sunniti wahabiti, ossia quelli che stanno con l’Isis. Per carità non è che gli
Sciiti siano tutte brave persone.
In una fase nella quale papa
Francesco ci dice che è incominciata la terza guerra mondiale a pezzetti e
capitoli. O questo papa dice barzellette ai funerali, o bisognerà prenderlo sul
serio. Cos’è questa terza guerra mondiale?”
Sulla terza guerra mondiale Bianchi giustamente citava Carl Schmitt: “Mi viene in mente Carl Schmitt, grande giurista, perfino filo nazista, ma un’intelligenza acutissima, che negli anni ’60 disse «è incominciata la terza guerra mondiale». Ed è una guerra civile combattuta da terroristi: è la radiografia.”
4.Resistenza
europea e ricerca della Pace di fronte alla terza guerra mondiale a pezzi.
Bianchi ricordò, in quello
scritto, anche il simbolo antinazista della Rosa Bianca tedesca. Un’immagine che ci consegna il tema della
Resistenza europea e del superamento dei nazionalismi.
Scriveva:
“Non
voglio rovinare le notti a nessuno, ma quando uno va a scavare nella storia non
è che si ferma a mettere un’altra lapide. Si chiede cosa stiamo costruendo,
come è possibile.
Chiudo
con una bella immagine della piccola, ma importante, resistenza tedesca: 'La
Rosa Bianca'. Questi ragazzi di Monaco di Baviera, studenti, che si ritrovano
alla sera per leggere i classici tedeschi, hanno fatto sei volantini in tutto
che mettevano in giro, all’Università, nelle guide delle cabine telefoniche.
La
cosa incredibile è questa: li prendono e il tribunale del popolo nazista di
Monaco di Baviera li giudica alla mattina e li ghigliottinano nel pomeriggio,
tale il timore che potesse il contagio attecchire. Ma la cosa stupenda è che
uno dei ragazzi che vanno alla ghigliottina si rivolge all’altro e dice
«comunque ci rivediamo fra dieci minuti».
Uno
che ha il fegato di dire una cosa così testimonia una speranza, che non è
l’ottimismo, ma un’altra cosa di estremamente positivo e motivante anche per
l’oggi e per il futuro.
Credo
che riandare a vedere i fatti della Resistenza in questo modo ti arricchisce,
non è soltanto fare memoria. La memoria è essenziale, ma è un modo per creare
un punto di vista, per guardare la vicenda nella quale, a qualche titolo, siamo
dentro, ma per andare avanti.”
Il tema dell’orizzonte europeo
è stato al centro del congresso del 2019 dell’Anpc, che ritroviamo nelle parole
dell’allora Presidente Beppe Matulli:
“La
proposta a questo congresso, di individuare nel compimento della Unione
Politica Europea, l’obiettivo della nostra iniziativa, non costituisce una
prospettiva “altra” rispetto alla lotta di liberazione combattuta
settantacinque anni fa. Non lo è, non soltanto per una interpretazione
“aggiornata” dello spirito libertario dei resistenti di allora, ma anche perché
la prospettiva europea era ampiamente presente nel pensiero antifascista, e si
fece ancora più acuto negli esuli e nei confinati.
Soltanto
per ricordare alcuni esempi illustri, ma non certamente i soli, la prospettiva
europea è fondamentale nella visione (e nella esperienza) internazionale di
Luigi Sturzo, lo è nella riflessione di Carlo Rosselli che scriveva il 17
maggio 1935 su Giustizia e Libertà, “… in questa tragica vigilia non esiste
altra salvezza. Non esiste, per la sinistra europea, altra politica estera.
Stati Uniti d’Europa. Assemblea europea. Il resto è flatus voci, il resto è la
catastrofe”.
Per
ricordare infine il punto più alto della iniziativa europeista di allora
nell’appello di Ventotene di Spinelli, Rossi, Colorni che continua a costituire
un punto di riferimento storico e culturale.”
Certamente c’è chi etichetterà
queste riflessioni come un discorso da divano o da tastiera, inutile, quasi
irritante di fronte alla tragedia della guerra.
Siamo stati davvero immersi in
una contraddittoria Pasqua di guerra,
come ben si leggeva negli occhi di Papa Francesco in una Piazza San Pietro
gremita come non si vedeva da molto tempo. Un’immagine preceduta da un’altra
che rimarrà nella memoria: due giovani donne, una ucraina e una russa, che
hanno retto insieme la Croce nel Venerdì Santo.
La storia ci consegna una responsabilità
e la consegna anche a coloro che guidano le associazioni partigiane oggi. Apc e
Anpi in primis. Queste associazioni hanno un valore di memoria ed educativo,
non devono diventare uno strumento dei partiti o dei supplenti impropri
nell’assenza degli stessi.
Penso sia molto importante,
nell’impegno concreto e vissuto, saper leggere la complessità del nostro
presente, specialmente se si è portatori di un lascito così importante.
La memoria della Resistenza e
dell’antifascismo ci pone di fronte al superamento di due alibi entrambi
pericolosi.
Il primo è quello del “non
sapevamo”. Il secondo è quello che l’odio, la considerazione di fare parte di
una fantomatica “civiltà superiore”, magari osannata da improbabili “atei
devoti” siano necessari alla vittoria, in una sempre più pericolosa
accettazione dell’inevitabilità della guerra.
Ha scritto bene Riccardo Redaelli nell’editoriale della
prima pagina di Avvenire di sabato 9 aprile:
(…)
Ora, sempre più chiaramente, si notano tendenze a uno scivolamento verso
visioni manichee che suonano estremamente pericolose.
Da
un lato, c’è la polarizzazione fra diritto alla difesa e diritto alla pace che
banalizza, o peggio criminalizza, il tentativo di far comprendere come lo
strumento militare, che gli Stati hanno il diritto di usare per difendersi, non
possa mai essere un fine, ma solo un ben proporzionato mezzo, teso a evitare lo
scoppio stesso dei conflitti o a spingere alla pace il prima possibile. Ma è un
mezzo che si deve cercare di non usare mai.
Dall’altro
lato, emerge una strana e inaccettabile
fascinazione per la guerra stessa. Giustamente si documentano e denunciano
gli orrori che le forze armate russe stanno compiendo, ma allo stesso tempo ci
si esalta per la resistenza ucraina, si mobilitano volontari, mentre i nostri
media raccontano a volte con trasporto quanti «soldati del nemico» siano stati
uccisi. Dimenticando che spesso si tratta di giovani reclute strappate dalle
lontane regioni periferiche dell’immenso retroterra russo, carne da cannone
buttata all’attacco da un crudele autocrate e dalla sua corte di sicofanti.
Per
essere chiari, ancora una volta, abbiamo chiaro che in questo conflitto vi è un
aggressore e un aggredito. E che chi subisce l’attacco ha tutto il diritto di
difendersi e di essere aiutato nella difesa. Ma non possiamo neppure scordare
come ogni conflitto sia una ininterrotta scia di sangue, di violenza che si
abbatte soprattutto sui civili indifesi. Che gli orrori non avvengono mai da
una sola parte e che "guerra" significa sempre e solo sangue,
lacrime, morte, fame. Non vi è nulla di affascinante nello scontro militare. E
in esso non c’è nient’altro che l’orrore di esseri umani che uccidono altri
esseri umani. Il nostro imperativo di europei, è, sì, quello di aiutare
l’Ucraina, ma al fine di fermare la guerra il prima possibile.
Non
per 'regolare i conti' con la Russia, per piegarla e marginalizzarla nel
sistema internazionale. E nemmeno per disumanizzare i suoi abitanti:
«Combattiamo contro invasori che non hanno più nulla di umano», ha detto il
presidente Zelensky. Non è così, perché sono infiniti i conflitti anche
contemporanei che mostrano gli stessi orrori traumatizzanti di Bucha, di
Kramatorsk, di Mariupol... Sono gli esseri umani che fanno le guerre, non i
mostri. Ed è compito di tutte le donne e di tutti gli uomini cercare ogni mezzo
per arrivare a una tregua. Primo passo verso una pace vera.
Per
colpire economicamente la Russia, ci si affanna a cercare fornitori di energia
alternativi bussando a governi che praticano abitualmente la tortura, reprimono
il dissenso, o che sono stati coinvolti in altri conflitti regionali. Si
progetta l’invio crescente di armamenti – ed è chiaro che per qualcuno
l’obiettivo è 'impantanare' Mosca, prolungando la guerra – e si parla sempre
più della possibilità che l’Ucraina vinca militarmente, rendendo più flebili le
voci e i tentativi di far tacere le armi e trovare le strade per un accordo.
Come se vi fosse un che di sinistramente affascinante, di romanticamente eroico
nella guerra. Ma i tanti morti, i bambini che non cresceranno mai, i giovani
ancora adolescenti di entrambi gli schieramenti uccisi nella loro divisa, gli
orfani, le distruzioni immani, le famiglie sradicate dalle loro case distrutte
ci riportano alla dura, cruda, brutale realtà.
Non c’è nulla nella guerra che
giustifichi il nostro incantamento e il nostro incitamento. Riserviamoli per la
pace, quando riusciremo a farla sbocciare.”
Sono tutti temi presenti e
molto approfonditi nel libro di Papa, Francesco, uscito poco prima della Pasqua
a cura della Libreria Editrice Vaticana: “Contro la guerra. Il coraggio di costruire
la Pace” che riporta gli interventi pronunciati negli ultimi anni in
particolare sulla necessità del disarmo globale.
5.
Andare avanti, alla vigilia del 25 aprile 2022.
Alla vigilia del 25 aprile (e
della marcia straordinaria Perugia.Assisi che lo precederà) in questa primavera
del 2022 che ci pone ad un secolo esatto dalla presa del potere di Mussolini, a
ottanta anni ormai dalla Resistenza, stiamo perdendo gli ultimi testimoni
diretti. Proprio per questo non possiamo dimenticare l’insegnamento dei
credenti e dei diversamente credenti che hanno saputo combattere senza odio e
hanno saputo impegnarsi per la pace, per la democrazia e per il dialogo europeo
e mondale tra i popoli (pensiamo a Giuseppe Dossetti, ma anche ad Alcide De
Gasperi e a Giorgio La Pira).
Se vogliamo davvero “andare avanti”, dobbiamo metterci
insieme in cammino davvero sui “sentieri partigiani”, come li chiamava Pippo
Morelli, sindacalista e fratello di Giorgio, Il Solitario, partigiano cristiano
vittima delle violenze del “triangolo rosso” a Reggio Emilia.
I “sentieri partigiani”
venivano rilanciati all’inizio degli anni ’90, all’indomani del celebre “chi sa
parli” scritto da Otello Montanari.
Oggi come allora non servono
posizionamenti tattici, frazionismi, esplosioni identitarie, riflessioni
frettolose.
Servono, insieme ad unità e
pluralismo, l’etica e la memoria del viandante. Non quella dei sedentari. Non
abbiamo bisogno di medaglie, musei, liturgie, ma del passaggio e del rilancio
dei valori e delle idee forza di generazione in generazione, nell’ottica del
dono, non del possesso.
L’urgenza e l’urlo del tempo
presente, l’esplosione di una possibile “guerra totale” e l’orrore della guerra
e delle guerre che già ci sono, impongono, direbbe don Lorenzo Milani, di non:
“bestemmiare il nostro tempo”.
Dobbiamo lavorare di più con i
giovani, verso quella generazione che in un bell’intervento al recente
congresso nazionale dell’Anpi è stata definita la generazione che, scegliendo
la pace, dovrà prendere in mano la cura del mondo e il cambiamento della
storia.
Ci dice, inascoltato, il Papa
che dobbiamo avere “il coraggio di costruire la Pace”, ed erodere anche dai
nostri immaginari, prima ancora che dalle nostre politiche, la guerra “pluridimensionale”, come l’ha
definita Fulvio De Giorgi in un
interessante approfondimento pubblicato dal portale www.c3dem.it
Insieme alla pace dobbiamo
difendere la democrazia, con il coraggio di affrontare un conflitto sempre più
multilaterale che sembra sempre più farsi strada come destino ineluttabile in
un presente ancora troppo incapace, allo stesso tempo, di memoria, consapevolezza,
visione e mobilitazione.
Francesco
Lauria, 21 aprile 2022.