Considerazioni a latere dell’iniziativa di Reggio Emilia e della fondazione di una nuova sezione dell’Associazione dei partigiani cristiani, 9 aprile 2022
“Forse
questa mia giornata terrena potrebbe non vedere l’alba di domani. Non mi
spaventa la morte. (…) Nell’istante prima del mio tramonto, mi prenderebbe una
sola nostalgia: quella di aver poco donato. Oggi la mia confessione ultima
sarebbe questa: l’odio non è mai stato ospite della mia casa. Ho creduto in
Dio, perché la sua fede è stata la sola ed unica forza che mi ha sorretto”.
Dal diario di Giorgio Morelli, “Il Solitario”, 9 agosto 1947, due giorni prima di morire.
1.Una
premessa familiare. Due nonni agli antipodi eppure entrambi costruttori della
nostra democrazia.
Mi sono sempre chiesto quanto
forte fosse il mio debito, anche da un punto di vista generazionale, nei
confronti dei miei due nonni: Anesio Finardi, partigiano cristiano (e
democristiano) nativo della bassa parmense e Francesco Lauria (porto il suo
nome), originario della Val d’Agri, in Basilicata, comunista ed esponente della
Cgil, a lungo confinato dal fascismo a Perdasdefogu, in Sardegna.
Nonno Anesio scomparve, dopo
una dolorosa malattia nel 1960, quando mia madre aveva solo undici anni; nonno
Ciccio, quasi improvvisamente, circa due anni prima che io nascessi, nel 1977.
Negli anni Novanta,
soprattutto prima di partire per Gorizia e Trieste per gli studi universitari
(quando diversa era lì la memoria della resistenza e il rapporto con la
dolorosissima tragedia delle Foibe e dell’esodo!) ho frequentato abbastanza a
lungo i locali del complesso di San Paolo a Parma, dove si trovavano, separati
da un corridoio e da una rampa di scale, la sede dell’Istituto della Resistenza
di Parma e anche i locali spartani e quasi immobili nel tempo dell’Apc (io la
chiamavo così, senza la n): l’Associazione dei Partigiani Cristiani.
I rapporti con l’istituto e
con l’Anpi, già allora non erano sempre semplici, come in molti Istituti
Storici della Resistenza si viveva sempre con un misto di “obbligo di
collaborazione” e di dialettica politica e identitaria permanente, specialmente
allorquando le attività delle associazioni resistenziali si confrontavano con i
temi dell’attualità politica, nazionale e locale.
Le fratture, a volte, come è
logico nelle associazioni democratiche, si sviluppavano anche dentro le
associazioni e si mischiavano, come è umano, anche alle contrapposizioni
personali.
Ricordo una dolorosissima
assemblea dell’Istituto in cui una figura importantissima e molto legata alla
figura di mio nonno, come Sergio Passera, partigiano cristiano di rilevanza
nazionale, si trovò in totale contrapposizione con la gran parte dell’Apc
parmense.
Ricordo, infine, che, credo
nel 1996, il presidente dell’Apc di Parma, Sergio Gigliotti, rifiutò di firmare
l’appello delle altre associazioni partigiane (non solo l’Anpi!) in occasione
delle elezioni politiche, che invitava a non votare la coalizione guidata da
Silvio Berlusconi, rivendicando che un partigiano potesse sentirsi
rappresentato anche da Forza Italia o dall’Udc e che non fosse compito
dell’associazione orientare il voto dei propri iscritti.
Non che l’appello, a due anni
esatti dalla grande manifestazione del 25 aprile del 1994, un milione di
persone in piazza a Milano sotto la pioggia scrosciante, fosse privo di
fondamento, ma, con il senno di poi, ritengo che anche la posizione di
Gigliotti e dell’Apc parmense, ovviamente da me allora non compresa, non fosse
priva di ragioni.
2.
Alle radici di un impegno. La testimonianza di Giovanni Bianchi, primo
presidente A(n)PC non partigiano.
Ho svolto la precedente
premessa perché ritengo che sia naturale che nell’agone politico ci si
confronti non solo con gli ideali, ma anche con gli interessi e che sia giusto
contestualizzare l’azione delle associazioni nel tempo che esse si ritrovano a
vivere, con tutte le difficoltà.
Detto ciò, ritengo che, per
affrontare con pragmatismo un tempo così difficile, occorra tornare alle radici
profonde dell’impegno e delle scelte.
Ho incontrato di nuovo l’Apc
con la presidenza di quello che per me e molti giovani è e sarà sempre un
eccezionale maestro: Giovanni Bianchi.
L’entusiasmo di Giovanni, in
questa sua nuova avventura, fu il solito di sempre, nonostante il gravissimo e
dolorosissimo lutto da lui subito dopo pochi mesi dal suo insediamento.
Giovanni era stato eletto nel
2012 ed era il primo presidente dell’A(n)pc a non aver partecipato, per ragioni
anagrafiche, alla Resistenza.
Ritengo che di fronte alla
nascita di nuove “sezioni” del’A(n)Pc le sue parole possano oggi ritornare
assolutamente utili.
Decidemmo insieme di
intitolare: “Tornare a Camaldoli”, l’intervista che gli feci per la rivista
dell’Fnp Cisl nazionale “Contromano”, con la quale allora collaboravo.
Gli chiesi come affrontava
questo impegno così simbolicamente importante di Presidente dellA(n)PC:
Rispondeva Giovanni: “E’ la politica e meglio ancora la cultura
politica che tiene insieme una grande associazione popolare. Perché la grande
politica (e non la tattica o le convenienze) le conferisce una radice, un
destino e quindi una missione. Cultura politica non significa idee che passano
da libro a libro, ma il vissuto collettivo su un territorio e dentro una storia
della quale si ha coscienza perché si continua a farne memoria.
Quando
si strappano o si dimenticano le radici in genere si evocano i fantasmi del
nuovismo, ma la perdita delle radici e della memoria consente soltanto di
passare dal vecchio al vuoto. Guidare una grande associazione confrontandosi
con le aggressioni dell’anagrafe significa soprattutto tenere culturalmente e
concretamente insieme passato e futuro. Le grandi idealità del passato e gli
esempi capaci di “contaminare” e affascinare le nuove generazioni. Chi ha il
coraggio della discontinuità deve avere acuto il senso della storia: la grande
politica è in grado di andare anche “contro” la storia, perché la conosce, la
rispetta, sa che è indispensabile miniera nella quale è bene continuare a
discendere.”
Una delle prima idee di
Giovanni fu quella di promuovere gruppi di incontro intergenerazionali sul
rapporto tra “Resistenza e Costituzione”
introducendo anche il tema dell’art.11 e del ripudio della guerra:
Giovanni la spiegava così: “Una grande epopea popolare come la
Resistenza rischia la noia delle liturgie ripetute. I protagonisti di allora
sono tutti da tempo avviati verso l’altra sponda. I superstiti hanno tenuto e
tengono ancora alta la fiaccola, ma i più baldi hanno superato gli
ottantacinque anni (era il 2013 ndR). L’idea va letta in questa prospettiva:
messa in comune di storie ed energie con la possibilità concreta di aprire alle
nuove generazioni. Fu Dossetti a indicare il legame profondo tra Resistenza e
Costituzione. Nel senso che il patrimonio antropologico e ideale della
Resistenza trova sbocco e architettura nella “più bella Costituzione del
mondo”.
Continuava Giovanni, con
parole attualissime:
“La
Costituzione non è leggibile infatti (si pensi all’articolo 11 e a quel verbo
inedito che recita “l’Italia ripudia la guerra”) senza la pressione della
seconda guerra mondiale e la spinta di ideale delle Resistenze europee. Sarebbe
sufficiente una rilettura dei testi poetici e teatrali di padre Turoldo a
ricreare una irripetibile atmosfera. Possiamo risalire all’epopea
resistenziale, connubio di lotta armata sui monti e trasformazione delle
coscienze nelle città, a partire dalla codificazione degli articoli forgiati
alla Costituente. L’idea ha cominciato a funzionare. Il ponte tra le
generazioni vede la costruzione delle prime campate, pur lavorando con i “mezzi
poveri” consigliati da Giuseppe Lazzati.”
Da Presidente dell’Apc
Giovanni si confrontava con il vento del tutto inedito in quel 2013,
rappresentato da Papa Francesco. La sue parole ci danno il senso dell’impegno
cristiano in tempi difficili e alla ricerca di “testimoni”:
Aggiungeva: “La prima enciclica di Papa Francesco
consiste nel nome. Il papa gesuita che indica per il discernimento e per la
pratica le “periferie esistenziali”. Il cristianesimo ha bisogno di riflettere
non soltanto sul rapporto con l’illuminismo, ma sui luoghi che ne sollecitano
l’incarnazione e la testimonianza. Non conta quindi soltanto la sistemazione
dottrinale, ma la testimonianza sulla quale saremo giudicati in cielo e sulla
terra dalle masse degli uomini contemporanei, quella che si sforza di praticare
il lieto annunzio ai poveri. Tornare, come invitava padre Turoldo, “a riprendere
i nomi di battaglia, indossare le armi della luce” significa testimoniare,
assumerci i rischi della condizione umana in questa complicata fase storica.
Anche in Italia, i punti di riferimento non mancano. Da don Tonino Bello al
cardinale Martini, a don Luigi Ciotti, per restare tra i presbiteri.
Quanto
alla speranza, mi pare di poter dire con Mounier che essa non è parente
prossima dell’ottimismo di maniera o di quello delle agenzie finanziarie. Non
abbiamo ricette. Perfino gli economisti che si erano rifugiati in cerca di
sicurezze scientifiche nei metodi econometrici hanno fallito. Dobbiamo provare
a fare esperienze, sapendo che non tutte andranno a buon fine, ma senza il
coraggio del rischio non si praticano le virtù civili e neppure il dovere del
cristiano chiamato a perdere la propria vita.”
Il coraggio del rischio mi fa
pensare anche a Giovanni, da Presidente delle Acli, a Sarajevo nella marcia Mir
Sada nel 1993.
3.L’attualità
di un messaggio di fronte alla possibilità di una guerra totale
Di fronte all’esplosione della
guerra in Europa, al grido di dolore che ci viene dall’Ucraina, ai milioni di
profughi, alla possibilità del disastro atomico, qual è il senso di attualità
di quelle parole?
Giovanni ci ha lasciati nel
mezzo dell’estate del 2017. Ricordo ancora quando, ricevuta la notizia,
lasciai, sconvolto, le mani di mio figlio per interrompere i giochi d’acqua.
Eravamo in un contesto bellissimo, all’isola d’Elba.
Ritornai ai nostri scambi
epistolari informatici di qualche anno prima. Mentre io affrontavo gli
orizzonti inediti della paternità, Giovanni viveva il dramma della perdita di
Sara, amatissima figlia.
Un mese dopo la scomparsa del
Presidente dell’Apc Avvenire pubblicò un suo intervento inedito che riprendeva
il filo del suo ultimo e discusso libro: “Resistenza senza fucile”.
Il quotidiano titolava così.
Giovanni Bianchi: «La resistenza sia senza odio» A un mese dalla scomparsa del
politico cattolico una riflessione dove descrive l'impegno partigiano,
sull'esempio di Dossetti e Gorrieri, con lo spirito di chi al fucile antepone
la risposta etica.
Scriveva l’ex presidente delle
Acli e di Apc, per l’ultima volta:
“Aveva
ragione Norberto Bobbio quando affermava che il nostro Paese era fatto di
«diversamente credenti» dove i cattolici semmai hanno una caratteristica.
Ho
titolato il mio libro Resistenza senza fucile. I cattolici non è che fossero
pacifisti, magari qualcuno sì. L’unico che ha partecipato a tutte le azioni
disarmato è stato Giuseppe Dossetti sull’Appennino reggiano. Su quello modenese
c’era Ermanno Gorrieri, sarà ministro del lavoro, che sparava cercando di
mirare giusto. La differenza è in un’altra modalità di condurre la guerra, lo
dice Gorrieri «Noi cercavamo di non fare stragi inutili e fare morti inutili».
Chi
definisce meglio questa modalità dei cattolici, ma lo ripeto non è pacifismo,
combattendo senza armi, a mani nude, è Ezio Franceschini (sarà rettore
dell’Università Cattolica di Milano): «Noi cattolici abbiamo imparato a
combattere senza odiare ». Non è che se prendi una pallottola da uno che non ti
odia non ti fa secco, però è diversa la modalità, il modo di affrontare il
nemico. Io avevo una grande amicizia con Sergio Gigliotti, uno dei capi
sull’Appennino parmense, scomparso un anno fa e vice presidente dei partigiani
cristiani. Faceva il liceo a Genova e trovandosi sull’Appennino parmense si è
aggregato ai partigiani. Farà la maturità classica alla fine della lotta di
Liberazione con un tema, che avrei voluto leggere, intitolato Dante partigiano
cristiano. Questo per dire qual era l’animo”.
C’è una riflessione conclusiva
nell’articolo di Bianchi su Avvenire che mi ha fatto venire in mente la
polemica durissima (e molto strumentalmente ripresa) tra Anpi e Apc in questi
giorni e alla riflessione, anch’essa divisiva, sull’aumento delle spese
militari e l’invio di armi.
Una situazione in cui le
associazioni partigiane sembrano diventare luogo privilegiato di polemica
spesso fine a se stessa e non di dialogo. Prese, a mio parere, da un’ansia
“dichiarazionista” poco giustificabile e utile e che ha perso, almeno in parte,
il senso della misura e anche della proporzione della tragedia che si sta
consumando in Ucraina.
Scriveva Giovanni nel suo
contributo...
“Vado
alla conclusione con un altro episodio raccontato dall’amico ebreo Stefano Levi
Della Torre, grande architetto, uno dei rappresentanti della comunità ebraica
milanese.
Una
volta mi spiegò, cosa che mi ha lasciato impressionato, che suo padre,
partigiano in 'Giustizia e Libertà', dopo la Liberazione si trovava con un
amico delle brigate Garibaldi una volta al mese. Sapete cosa facevano? Una
volta al mese uno sosteneva le ragioni dell’altro! Un esempio stupendo di che
cosa può essere la democrazia, l’ascolto, la comprensione. Una di quelle
modalità che, comunque collocate nella Resistenza, ci spiegano come quelle
persone abbiano provato a combattere senza odio.”
Un esempio che mi piacerebbe
pensare avesse potuto essere seguito dai miei due nonni democristiano e
comunista.
Concludeva Bianchi con un tema
di stringentissima attualità:
“Mi
sembra davvero una cosa attorno alla quale riflettere. Se poi si viene all’oggi
in un periodo nel quale si vendono armi a gogò. Pensate al viaggio di Trump in
Arabia Saudita, contratti iper miliardari e con una scelta molto precisa dei
Sunniti wahabiti, ossia quelli che stanno con l’Isis. Per carità non è che gli
Sciiti siano tutte brave persone.
In una fase nella quale papa
Francesco ci dice che è incominciata la terza guerra mondiale a pezzetti e
capitoli. O questo papa dice barzellette ai funerali, o bisognerà prenderlo sul
serio. Cos’è questa terza guerra mondiale?”
Sulla terza guerra mondiale
Bianchi, giustamente citava Carl Schmitt.
“Mi
viene in mente Carl Schmitt, grande giurista, perfino filo nazista, ma
un’intelligenza acutissima, che negli anni ’60 disse «è incominciata la terza
guerra mondiale ». Ed è una guerra civile combattuta da terroristi: è la
radiografia.”
4.Resistenza
europea e ricerca della Pace di fronte alla terza guerra mondiale a pezzi.
Bianchi ricordò, in quello
scritto, anche il simbolo antinazista della Rosa Bianca tedesca. Un’immagine che ci consegna il tema della
Resistenza europea e del superamento dei nazionalismi.
Scriveva:
“Non
voglio rovinare le notti a nessuno, ma quando uno va a scavare nella storia non
è che si ferma a mettere un’altra lapide. Si chiede cosa stiamo costruendo,
come è possibile.
Chiudo
con una bella immagine della piccola, ma importante, resistenza tedesca: 'La
Rosa Bianca'. Questi ragazzi di Monaco di Baviera, studenti, che si ritrovano
alla sera per leggere i classici tedeschi, hanno fatto sei volantini in tutto
che mettevano in giro, all’Università, nelle guide delle cabine telefoniche.
La
cosa incredibile è questa: li prendono e il tribunale del popolo nazista di
Monaco di Baviera li giudica alla mattina e li ghigliottinano nel pomeriggio,
tale il timore che potesse il contagio attecchire. Ma la cosa stupenda è che
uno dei ragazzi che vanno alla ghigliottina si rivolge all’altro e dice
«comunque ci rivediamo fra dieci minuti».
Uno
che ha il fegato di dire una cosa così testimonia una speranza, che non è
l’ottimismo, ma un’altra cosa di estremamente positivo e motivante anche per
l’oggi e per il futuro.
Credo
che riandare a vedere i fatti della Resistenza in questo modo ti arricchisce,
non è soltanto fare memoria. La memoria è essenziale, ma è un modo per creare
un punto di vista, per guardare la vicenda nella quale, a qualche titolo, siamo
dentro, ma per andare avanti.”
E’ il tema, in fondo, che è
stato al centro del congresso del 2019 dell’Anpc, che ritroviamo nelle parole
dell’allora Presidente Beppe Matulli:
“La
proposta a questo congresso, di individuare nel compimento della Unione
Politica Europea, l’obiettivo della nostra iniziativa, non costituisce una
prospettiva “altra” rispetto alla lotta di liberazione combattuta
settantacinque anni fa. Non lo è, non soltanto per una interpretazione
“aggiornata” dello spirito libertario dei resistenti di allora, ma anche perché
la prospettiva europea era ampiamente presente nel pensiero antifascista, e si
fece ancora più acuto negli esuli e nei confinati.
Soltanto
per ricordare alcuni esempi illustri, ma non certamente i soli, la prospettiva
europea è fondamentale nella visione (e nella esperienza) internazionale di
Luigi Sturzo, lo è nella riflessione di Carlo Rosselli che scriveva il 17
maggio 1935 su Giustizia e Libertà, “… in questa tragica vigilia non esiste
altra salvezza. Non esiste, per la sinistra europea, altra politica estera.
Stati Uniti d’Europa. Assemblea europea. Il resto è flatus voci, il resto è la
catastrofe”.
Per
ricordare infine il punto più alto della iniziativa europeista di allora
nell’appello di Ventotene di Spinelli, Rossi, Colorni che continua a costituire
un punto di riferimento storico e culturale.”
Mi si dirà, forse, bello
questo discorso da divano o da tastiera di fronte alla tragedia della guerra.
Ma la storia ci consegna una
responsabilità e la consegna a tutti coloro che guidano le associazioni
partigiane oggi. Apc e Anpi in primis. Penso sia molto importante, nell’impegno
concreto e vissuto, saper leggere la complessità del nostro presente,
specialmente se si è portatori di un lascito così importante.
Questo ricordo della Resistenza
e dell’antifascismo ci pone di fronte al superamento di due alibi entrambi
pericolosi.
Il primo è quello del “non
sapevamo”. Il secondo è quello che l’odio, la considerazione di fare parte di
una fantomatica “civiltà superiore”, siano necessari alla vittoria, in una
sempre più pericolosa accettazione dell’inevitabilità della guerra.
Scrive bene Riccardo Redaelli nell’editoriale della
prima pagina di Avvenire di oggi:
(…)
Ora, sempre più chiaramente, si notano tendenze a uno scivolamento verso visioni
manichee che suonano estremamente pericolose.
Da
un lato, c’è la polarizzazione fra diritto alla difesa e diritto alla pace che
banalizza, o peggio criminalizza, il tentativo di far comprendere come lo
strumento militare, che gli Stati hanno il diritto di usare per difendersi, non
possa mai essere un fine, ma solo un ben proporzionato mezzo, teso a evitare lo
scoppio stesso dei conflitti o a spingere alla pace il prima possibile. Ma è un
mezzo che si deve cercare di non usare mai.
Dall’altro
lato, emerge una strana e inaccettabile fascinazione per la guerra stessa.
Giustamente si documentano e denunciano gli orrori che le forze armate russe
stanno compiendo, ma allo stesso tempo ci si esalta per la resistenza ucraina,
si mobilitano volontari, mentre i nostri media raccontano a volte con trasporto
quanti «soldati del nemico» siano stati uccisi. Dimenticando che spesso si
tratta di giovani reclute strappate dalle lontane regioni periferiche
dell’immenso retroterra russo, carne da cannone buttata all’attacco da un
crudele autocrate e dalla sua corte di sicofanti.
Per
essere chiari, ancora una volta, abbiamo chiaro che in questo conflitto vi è un
aggressore e un aggredito. E che chi subisce l’attacco ha tutto il diritto di
difendersi e di essere aiutato nella difesa. Ma non possiamo neppure scordare
come ogni conflitto sia una ininterrotta scia di sangue, di violenza che si
abbatte soprattutto sui civili indifesi. Che gli orrori non avvengono mai da
una sola parte e che "guerra" significa sempre e solo sangue, lacrime,
morte, fame. Non vi è nulla di affascinante nello scontro militare. E in esso
non c’è nient’altro che l’orrore di esseri umani che uccidono altri esseri
umani. Il nostro imperativo di europei, è, sì, quello di aiutare l’Ucraina, ma
al fine di fermare la guerra il prima possibile.
Non
per 'regolare i conti' con la Russia, per piegarla e marginalizzarla nel
sistema internazionale. E nemmeno per disumanizzare i suoi abitanti:
«Combattiamo contro invasori che non hanno più nulla di umano», ha detto il presidente
Zelensky. Non è così, perché sono infiniti i conflitti anche contemporanei che
mostrano gli stessi orrori traumatizzanti di Bucha, di Kramatorsk, di
Mariupol... Sono gli esseri umani che fanno le guerre, non i mostri. Ed è
compito di tutte le donne e di tutti gli uomini cercare ogni mezzo per arrivare
a una tregua. Primo passo verso una pace vera.
Per
colpire economicamente la Russia, ci si affanna a cercare fornitori di energia
alternativi bussando a governi che praticano abitualmente la tortura, reprimono
il dissenso, o che sono stati coinvolti in altri conflitti regionali. Si
progetta l’invio crescente di armamenti – ed è chiaro che per qualcuno
l’obiettivo è 'impantanare' Mosca, prolungando la guerra – e si parla sempre
più della possibilità che l’Ucraina vinca militarmente, rendendo più flebili le
voci e i tentativi di far tacere le armi e trovare le strade per un accordo.
Come se vi fosse un che di sinistramente affascinante, di romanticamente eroico
nella guerra. Ma i tanti morti, i bambini che non cresceranno mai, i giovani
ancora adolescenti di entrambi gli schieramenti uccisi nella loro divisa, gli
orfani, le distruzioni immani, le famiglie sradicate dalle loro case distrutte
ci riportano alla dura, cruda, brutale realtà.
Non
c’è nulla nella guerra che giustifichi il nostro incantamento e il nostro
incitamento. Riserviamoli per la pace, quando riusciremo a farla sbocciare.”
In questa primavera del 2022,
a oltre cento anni dalla nascita dei miei nonni Anesio e Ciccio, ad un secolo
esatto dalla presa del potere del fascismo, a ottanta anni ormai dalla
Resistenza, mentre perdiamo gli ultimi testimoni, non possiamo dimenticare
l’insegnamento dei credenti e dei diversamente credenti che hanno saputo
combattere senza odio e hanno saputo impegnarsi per la pace e il dialogo
europeo e mondale tra i popoli (pensiamo a Giuseppe Dossetti).
Se vogliamo davvero “andare
avanti”, dobbiamo metterci in cammino davvero sui “sentieri partigiani”, come
li chiamava Pippo Morelli, all’inizio degli anni ’90, all’indomani del “chi sa
parli”, da vice Presidente del Parco del Gigante.
Non servono posizionamenti
tattici, frazionismi, esplosioni identitarie.
Servono l’etica e la memoria
del viandante. Non quella dei sedentari. Non abbiamo bisogno di medaglie,
musei, liturgie, ma del passaggio e del rilancio dei valori e delle idee forza
di generazione in generazione, nell’ottica del dono, non del possesso.
L’urgenza e l’urlo del tempo
presente ci impongono, direbbe don Lorenzo Milani, di non: “bestemmiare il
nostro tempo”. Questo è il mio piccolo
augurio sincero e parmigiano ai “resistenti reggiani” del terzo millennio.
Francesco Lauria, 9 aprile 2022.
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