Quel Primo Maggio, seppur privo di cortei, bandiere, fischietti, canti e concertone, rimarrà il più strano e straordinario. Unico e irrepetibile. Nel trasferimento da La Guajira, la penisola desolata, resa ancor più deserto dalla luce (E. Dickinson), e da Riohacha, il capoluogo del Dipartimento, “la città di sabbia e di sole “ dov’erano nati i genitori di Gabo, il viaggio prevedeva una tappa ad Aracataca, nella (ricostruita) casa natale dello scrittore colombiano Nobel per la Letteratura.
Il Primo Maggio del 2019, sotto un gigantesco ficus dalle radici tentacolari, anche minacciose nello sgusciare negli anfratti come rettili preistorici, mi è capitato di ripassare i nomi dei sindacalisti che, per la loro militanza, avevano perso la vita: in Colombia, ovviamente, ma anche in Brasile, in Centro America, in Messico, nella lontana Timor. E mi potevo immergere, per l’ennesima volta, nella straordinaria scoperta infantile del protagonista di Cien añs de soledad: el hielo, il ghiaccio.
Lì, sotto quel
ficus, tra le citazioni di Gabriel García Márquez sui muri infuocati di bianco
dal Tropico in esplosione, era chiaro perché la scoperta del ghiaccio potesse
sembrare meravigliosa. Come nei torrenti e nelle baie del Parque Nacional de
Tayrona si poteva capire perché i grandi sassi levigati diventassero uova
preistoriche.
Nel movimento
operaio, rivoluzione e riformismo hanno abitato a lungo, in una dialettica
perenne tra fascino e fattibilità, costi e benefici, pars destruens e pars
costruens, mentre i miti e i riti del sindacalismo moderno – il sole
dell’avvenire, anzitutto, metafora onnicomprensiva di riconoscimento
dell’organizzazione sindacale, di una giornata lavorativa di 8 ore, del diritto
allo sciopero e all’emancipazione dalla schiavitù di un lavoro inzuppato di lacrime
e di sangue e di sudore – hanno proceduto a fatica. Lentamente. Una storia
impregnata di sangue e di eroismi noti – alcuni -, ignoti – i più -; gli uni e
gli altri meriterebbero una più attenta cura da parte degli storici e degli
stessi sindacalisti.
La storia non fa salti, e gli uomini – li chiameremo “sapienti” – non sempre riescono a “stare sul pezzo”, leggendo correttamente i tempi. Come illustrato dal racconto di Northrop Frye, critico letterario canadese. Un giorno un suo amico medico decideva di concedersi un’esplorazione nella tundra artica. Veniva sorpreso da una tempesta di neve. “
Ci siamo persi”, esclamava con voce strozzata dall’ansia, rivolto alla guida Inuit che lo accompagnava in quell’impresa dagli imprevisti incorporati. “No, amico”, replicava pronto l’Inuit; “no, amico, non ci siamo persi. Siamo qui”. Nel luogo e nel tempo in cui dobbiamo essere ed operare.
Su fratelli, su
compagni,
su, venite in
fitta schiera:
splende il sol dell’avvenire.
Nelle pene e
nell’insulto
ci stringemmo in
mutuo patto,
la gran causa del
riscatto
niun di noi vorrà tradir.
(…)
O vivremo del
lavoro
o pugnando si
morrà.
(“Inno dei
Lavoratori”, parole di Filippo Turati, musica di Amintore Galli).
Il 27 marzo del 1886, qualcosa come 135 anni fa, nel salone del Consolato operaio a Milano la Corale Donizetti eseguiva la prima dell’Inno dei Lavoratori, testo del giovane (29 anni) ma già affermato esponente del riformismo socialista Filippo Turati (il partito socialista non era ancora stato costituito) e musica del musico-pubblicista Amintore Galli. Si erano consumati poco meno di quarant’anni da quando Marx e F. Engels avevano osato pronunciare il nome dello spettro che s’aggirava per l’Europa, spaventando re, monarchi, sovrani, Papi e borghesi (“Il Manifesto” è del 1848).
L’Inno assemblava tutte (o quasi) le parole dei diseredati: sfruttamento e riscatto, oppressione e unione, servitù e pugna, sudore e giogo, i poveri sono servi, condannati a una lotta senza sosta contro i negrieri e i tiranni.
Un inno pedagogico, in sintonia con i tempi: nello stesso anno De
Amicis, candidandosi a pedagogo dell’Italia di Depretis e della Sinistra al
governo, pubblicava Cuore, e la
Statua della Libertà, regalo dei francesi agli amici americani, prendeva il suo
posto alla foce dell’Hudson, al centro della baia di Manhattan. Ad Haymarket
Square, Chicago, si consumava l’ennesima, sanguinosa repressione di uno
sciopero generale, convocato a sostegno della giornata a otto ore.
Che “sulla libera
bandiera” splendesse “il sol dell’avvenire” ci credevano in tanti; per questo
donne e uomini si aggregavano e si organizzavano, sfidavano divieti e
repressioni, tenendo alla dovuta distanza l’anarchia violenta e rivoluzionaria.
Ma quanta fatica, quanta pazienza, quanti morti.
Vent’anni prima dell’Inno e del libro Cuore, sempre a Chicago, il Parlamento dell’Illinois aveva adottato una legge sulle otto ore giornaliere; l’iniziativa aveva camminato, ma troppo pigramente: e così proprio in quel 1886, l’anno dell’Inno dei Lavoratori, l’American Federation of Organized Traders and Labor Unions ne chiedeva l’estensione a tutti gli Stati della Federazione, pena la proclamazione di uno sciopero generale. E sciopero fu a Chicago, con scontri tra manifestanti e polizia, e il “fattaccio brutto” di Haymarket Square, rimasto sostanzialmente insoluto, come soleva accadere a fronte di conflitti sociali, trattati dalle autorità come “attentati all’ordine pubblico”.
Un film visto e rivisto fino alla indigeribilità:
proclamazione dello sciopero, divieto delle autorità, scoppio di un ordigno e
morte di vittime innocenti, repressione politica e giudiziaria, processi dalla
dubbia imparzialità e claudicante ricerca della verità e dei colpevoli,
condanne alla pena capitale.
Il resto della
storia del Primo Maggio è nota: la Seconda Internazionale, sorta per iniziativa
dei socialisti e dei laboristi, convocata a Parigi per la prima volta nel 1889
– l’anno dell’Expo universale e della Torre Eiffel - adotta la data dei fatti
di Haymarket Square, il Primo Maggio appunto, come Festa dei Lavoratori. E due
anni dopo veniva adottata anche in Italia, salutata dalla rivista La
Rivendicazione”, stampata a Forlì, con le seguenti parole: “Il Primo Maggio è
come parola magica che corre di bocca in bocca, che rallegra gli animi di tutti
i lavoratori del mondo, è parola di ordine che si scambia fra quanti si
interessano al proprio miglioramento”. Un’enfasi retorica del tutto
accettabile.
Risulta tutt’altro che alieno agli stop and go delle umane vicende il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo (1868-1907), tanto peggio per chi non ha pazienza, incapace di scommettere sulla speranza del futuro. Il grande quadro, inusuale per dimensioni e per l’affollamento delle masse, terminato nel 1901, veniva esposto nella Quadriennale di Torino. Il soggetto esplicitava un messaggio diretto: spente le cannonate di Bava Beccaris sui dimostranti milanesi e accantonate le velleità autoritarie di De Rudiní (e del Re Umberto I, ucciso a revolverate dall’anarchico Bresci a Monza), l’era giolittiana alludeva a un riscatto risarcitorio, a lungo atteso.
Quadro e
messaggio passavano, invece, inosservati. Nel 1907, alla sua morte (suicidio)
men che quarantenne in seguito alla morte improvvisa della moglie, gli eredi
trovavano il quadro tra i suoi ben; rientrava in una collezione pubblica solo
quando, nel 1920, il Comune di Milano, guidato da Emilio Caldara, carismatico
primo sindaco socialista della metropoli, ne decideva l’acquisto. Con pubblica
sottoscrizione, cause le casse comunali esangui.
Due annotazioni ancora a completamento del breve schizzo storico: il fascismo, arrivato al potere appena due anni dopo l’acquisto da parte del Comune di Milano del Quarto Stato, pensò bene di anticipare il Primo Maggio al 21 aprile, giorno della Fondazione di Roma. Un modo inelegante per cancellare anche solo la parola socialismo, con quello che ne seguiva e segue. Il Quarto Stato, inteso come icona e sole dell’avvenire, diventerà il simbolo dei diseredati in marcia, uniti, per i diritti e la libertà, nel 1976: quando il regista Bernardo Bertolucci lo sceglie come locandina del film Il Novecento.
Non c’erano meriti particolari, negli anni Settanta del secolo scorso, nel militare in un partito e/o in un sindacato. Meglio ancora se in tutte e due. La neutralità, una bestemmia impronunciabile, e il guardare altrove, un peccato di omissione imperdonabile. Non ha avuto l’attenzione che merita, quel decennio, per quanto accaduto, tanto incisivo quanto – e forse più - del tanto lodato e/o detestato ’68. Un decennio sacrificato sull’altare di Tangentopoli.
Le ideologie contavano, e non erano
tutto e solo farina del diavolo. “Eravamo soli e senza senso”, per dirla con le
parole di Antoine Roquetin di “La nausea” di J. P. Sartre nella recente lettura
di M. Recalcati (“A libro aperto. Una vita è i suoi libri”, Feltrinelli, 2020).
Dunque, partiti e sindacati rientravano nel pacchetto delle “scelte obbligatorie”: era allora chiaro, e lo sarà sino a Tangentopoli, alla caduta del Muro, alla globalizzazione, allo sfarinamento – più propriamente, al “rifiuto disgustato” delle ideologie -, che la nuova Repubblica si fondava su alcuni punti, fermi e condivisi, della giovanissima Carta Costituzionale: la centralità della persona umana (artt. 2 e 3), i valori della democrazia e della libertà e dell’Europa.
E
– un punto sul quale la pubblica opinione, i partiti e gli stessi sindacati non
si sono soffermati sufficientemente – sulla negazione che il popolo abbia
sempre ragione. Mussolini, prima, e Hitler, poi, si erano arrampicati sul
potere con il voto popolare – e con il consenso (o il non rifiuto) del fior
fiore dell’intellighenzia. L’affermazione, temo, è troppo brusca: si dica,
allora, che il popolo ha ragione in quanto agganciato allo spirito e ai
principi della Costituzione, come scandito dal secondo comma dell’articolo 1
della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. La sovranità
appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione”.
In questa valle di lacrime, il singolo (la persona) e la comunità (non c’è persona senza comunità) si muovono, esplorano, cercano, vivono e crescono e soddisfano le proprie passioni.
Nell’affascinante “Le vie dei canti” (1987) il grande Bruce Chatwin
sostiene che fin dalle origini l’uomo ha sentito l’impulso di spostarsi,
migrare. Il prototipo umano virtuoso è il nomade che, a differenza del
sedentario, sfugge alla tentazione di voler cambiare il mondo, la sua casa è
ovunque si trovi, per scelte e/o necessità e/o caso; e lo è grazie ai
“guardiani” e ai “punti di riferimento della comunità”. La Bibbia racconta di
un Dio creatore che predilige i doni del nomade (pastore) Abele.
Per Costantino
Kavafis, un greco nato in Egitto, una vita spesa studiando la grande cultura
antica greco-romana-bizantina, il compito di “guardiano” e di “punto di
riferimento” spetta al sapiente.
“Gli uomini sanno le cose presenti,
gli dei conoscono
quelle future,
assoluti padroni
d’ogni luce.
Ma del futuro,
avvertono i sapienti
ciò che s’appressa. Tra le gravi cure
degli studi,
l’udito ecco si turba
d’un tratto. A
loro giungono le oscure
voci dei fatti che
il domani adduce.
Le ascoltano
devoti. Fuori, per via, la turba
non sente nulla,
con le orecchie dure”.
(“C. Kavafis, “I
sapienti ciò che s’avvicina”)
Gli dei lassù, da
qualche parte, che conoscono il futuro, i comuni mortali che non possono che
accontentarsi del presente, opaco e senz’anima. E poi ci sono loro, i sapienti,
capaci di “parlare ai presenti con esempi del passato” (B. Gracián, gesuita
spagnolo del XVII secolo): perché studiano e sono in grado di interpretare il
passato e, dunque, di capire la direzione di marcia da intraprendere:
“avvertono ciò che s’appressa”. Per tutto ciò, ai sapienti spetta il compito di
guidare (“la turba non sente nulla”) la comunità in questa valle di lacrime.
Un profilo troppe impegnativo per una realtà, quella politica, pesantemente mondana, distante dai voli pindarici della letteratura e della poesia? Affatto, ove si ripassi la storia del sindacalismo confederale e, in particolare, del “sindacato nuovo” ideato e voluto dall’humus culturale dal quale sono sbocciati gli articoli 2 e 3 della Costituzione.
La festa del Primo Maggio è una buona occasione per
ri-leggere qualche passo di “Pensiero, Azione, Autonomia. Saggi e testimonianze
per Pierre Carniti” (Edizioni Lavoro Roma, 2017), “Sapere, Libertà. Mondo. La
strada di Pippo Morelli” (Edizioni Lavoro Roma, 2020). E, perché no?, il
racconto elegante di Federico Bozzini in “Cipolle e libertà. Ricordi e pensieri
di Gelmino Ottaviani, operaio metalmeccanico”. Ovviamente, senza perdersi il
monologo recitato magistralmente da Marco Paolini.
I partiti come i sindacati sono costruzioni umane, guidate e amministrate da uomini più o meno sapienti, più o meno colti e amanti dello studio e attrezzati per leggere i segni dei tempi.
La scelta e la preparazione del “sapiente” in grado di “avvertire
ciò che s’appressa” costituivano la prima delle preoccupazione di un sindacato
che teorizzava l’autonomia dai partiti e dal governo (art. 2 dello Statuto
della Cisl), non certo dalla politica, il superamento di ogni ancillarità nella
interpretazione della politica intesa come servizio alla comunità –
ovviamente, a iniziare dai diseredati –
e di cittadini-protagonisti della vita politica, superando i limiti vistosi e
paralizzanti del corporativismo.
E’ un fatto che il sindacalismo confederale, nella lotta per la conquista dei fondamentali diritti sociali – riconoscimento dell’organizzazione sindacale, diritto di sciopero, emancipazione dallo sfruttamento (in primis, con la conquista della parola, don Milani docet), partecipazione agli utili frutto del lavoro umano, centralità della persona (il lavoratore) e del lavoro nella vita di una comunità (locale e nazionale), scelta europea come dimensione culturale e valoriale irrinunciabile – ha saputo “incanalare” (costituzionalizzare, democratizzare) i sommovimenti sociali del biennio ’68-69, difendere le istituzioni e, contemporaneamente, promuovere/assecondare le grandi riforme degli anni Settanta lanciando l’alfabetizzazione per la riqualificazione culturale ed economica del lavoro operaio meno qualificato (le 150 ore).
Molto
è cambiato da allora da noi, nelle democrazie avanzate e nel vasto mondo, ma i
sindacati non cessano di “qualificare” i sistemi politici e di definirne la qualità
democratica.
Questo era ieri e l’altro ieri, agli albori della Repubblica costituzionale quando la riconquista della libertà e l’insediamento di una sana e robusta democrazia si accompagnarono all’affermazione di diritti sociali a lungo perseguiti come obiettivo primario.
E’ giunto il momento di smettere di considerarci un Paese anomalo; uno sguardo anche superficiale alle realtà a noi vicine e lontane conferma come la c.d. “normalità” non escluda – ovunque - contraddizioni, anomalie, anomie. I tentativi di costruire una società né di destra né di sinistra, e una democrazia diretta (digitale) e senza corpi intermedi (e senza la rispettiva intermediazione) non hanno portato – finora – da nessuna parte (per quanto se ne sa, non possono portare da nessuna parte).
Nel mondo umano noto a chi la
storia l’ha coltivata e studiata, i soggetti politici e gli attori sociali non
possono che “stare qui, sul pezzo, sui
fatti e sulle linee di tendenze”, come nel raccontino di Northrop Frye. Si
creda o meno nel peccato originale, le ingiustizie hanno popolato, abitano e
caratterizzeranno il pianeta umano. E, dunque, ci sarà sempre bisogno del
“sapiente” di Kavafis: colui che studia, legge i tempi, suggerisce alla “turba
[che] non sente nulla” come affrontare il domani. I “sapienti” come le vestali
del mondo moderno.
Al “sindacato
nuovo” e al sindacalismo confederale si spalancano praterie di potenzialità.
“Gli uomini sanno le cose presenti. / Gli dei conoscono quelle future (…) / Ma
del futuro, avvertono i sapienti / ciò che s’appressa”: un mondo nuovo per un
lavoro nuovo, e un sindacato nuovo.
Non è mai mancato il lavoro per il sindacalista, i tempi sono sempre “complessi”, per usare l’aggettivo di chiusura dei comizi e degli interventi di Pierre Carniti. E’ lapalissiano: nei tempi eccezionali il lavoro del sindacalista sapiente diventa eccezionale.
Emidio Pichelan
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