lunedì 28 dicembre 2020

28 dicembre. La pianura dei sette fratelli, il presentimento di Giorgio, il perdono di Pippo.

"E terra e acqua e vento / Non c'era tempo per la paura.

Nati sotto la stella / Quella più bella della pianura.

Avevano una falce / E mani grandi da contadini

E prima di dormire / Un padre nostro, come da bambini.

Sette figlioli sette / di pane e miele a chi li do?

Sette come le note / Una canzone gli canterò.

"Francesco, ma come mai prima delle testimonianze, a pag. 391, hai messo questa canzone, è un errore?"

Quando ho ricevuto questa telefonata dalla casa editrice, poco prima che il libro su Pippo Morelli andasse in stampa, ammetto di avere abbozzato un sorriso.

Questa stupenda canzone della band marchigiana dei Gang, dedicata alla vita e al sacrificio dei sette fratelli Cervi, non era un refuso, ma rappresentava qualcosa, per me, di intimamente importante.

Quella di Pippo Morelli e della sua famiglia è, infatti, una storia emiliana, come, in buona parte, la mia.

Affonda le radici, vale per tutta la mia terra, nella Resistenza partigiana, in uno spazio, come scrivono i fratelli Severini, nato: "sotto la stella, quella più bella della pianura".

Una terra delimitata dal grande fiume che ne congiunge le province e ne delimita il confine.

La mia generazione, adolescente nella metà degli anni Novanta del Novecento, è forse l'ultima ad essere cresciuta a contatto con la memoria viva della Resistenza, fosse essa rappresentata dai propri nonni o meno.

Ricordo come oggi i vecchi partigiani cristiani nel complesso dei Giardini di San Paolo a Parma mettere in ordine documenti e vecchie sedie, rispolverare quadri, racconti e memorie.

Tra quei partigiani, durante la lotta resistenziale, c'era anche mio nonno Anesio Finardi, scomparso prematuramente nel 1960, di cui ho racconti molti frammentati dei compagni di lotta, conosciuti superficialmente, come direbbero gli austriaci, "un attimo prima del Mezzogiorno".

Ecco, quella canzone dei Gang rappresenta la centralità dell'esperienza resistenziale della mia Emilia, certo un racconto spesso non sufficientemente plurale che ha oscurato per tanti decenni anche le proprie ombre.

E così, proprio nell'anniversario del sacrificio dei sette fratelli Cervi e di Quarto Cimurri, non è contraddittorio ricordare anche Giorgio Morelli, il partigiano "Solitario", fratello di Pippo. Il primo ad issare il tricolore nella Reggio Emilia liberata.

  

La nostra pianura, come cantano ancora i Gang, ci dice ancora oggi che: "i figli di Alcide non sono mai morti" ci fa commuovere in mezzo alla nebbia, oggi, anche alla neve, pensando a loro.

Ma ci restituisce anche le intense parole di Giorgio Morelli, tratte dal suo diario, scritte due giorni prima di morire, non per mano fascista, ma per mano comunista, una mano fratricida, in quello che sarebbe stato poi definito, pur tra tante strumentalizzazioni, il "triangolo rosso", a guerra ampiamente finita.

Scriveva il Solitario: "Ho una tristezza infinita nell'anima. Quasi un presentimento che debba avvenire qualcosa di inatteso, di acerbo. Forse questa mia giornata terrena potrebbe non vedere l'alba di domani. Non mi spaventa la morte. Mi è amica, poichè da tempo l'ho sentita vicina. (...) 

Nell'istante prima del mio tramonto, mi prenderebbe una sola nostalgia, quella di aver poco donato. Oggi la mia confessione ultima sarebbe questa: l'odio non è mai stato ospite della mia casa. Ho creduto in Dio, perchè la sua fede è stata la sola e unica forza che mi ha sorretto".

Un'eredità non semplice da portare per Pippo, specialmente nel suo territorio. 

Ha testimoniato nel libro Massimo Storchi:

"Fu Morelli a chiedermi se avessi scoperto qualcosa di più sul fratello Giorgio. Il clima a Reggio Emilia non era semplice, ma lui non aveva quel più di astio, spesso visceralmente anticomunista, comprensibilissimo e piuttosto diffuso tra i familiari delle vittime della violenza politica comunista nel dopoguerra. Quello che Morelli cercava, con grande attenzione e sensibilità, era di conoscere meglio quello che era avvenuto al fratello, il contesto socio-politico e, ovviamente, anche le responsabilità. Pippo Morelli era stato capace di rielaborare il lutto. Non gli interessava il martirologio, ma un confronto aperto, maturo. Gliene sono sempre stato riconoscente".

Forse è per questo che dalla pianura, anzi dal grande fiume di mio nonno Anesio, che era di Colorno, le note e le parole si incamminano verso i monti, attraverso quei sentieri partigiani che Pippo Morelli contribuì a riscoprire proprio all'inizio degli anni Novanta del Novecento, da vice presidente del Parco del Gigante.

Me li immagino, nonno Anesio, Giorgio, Pippo, i sette fratelli, Quarto Cimurri, incamminarsi verso altre terre emiliane che hanno conosciuto, contemporaneamente, un'immane tragedia e poi un sogno, infinito, certo a volte contraddittorio, ma genuino, di Pace e Giustizia.

Sì, non è breve, la strada della Pianura verso le Querce di Montesole. 

Ma io me li immagino davvero, insieme, tutti quanti camminare in salita e incrociare lo sguardo del cielo insieme all'esile figura di Don Giuseppe Dossetti che li benedice, con i loro canti...

"E in quella pianura / Da Valle Re ai Campi Rossi

noi ci passammo un giorno / e in mezzo alla nebbia

ci scoprimmo commossi.

Sette figlioli sette / di pane e miele a chi li do?

Sette come le note / Una canzone gli canterò.

E anche io, da Pistoia, da quella che Francesco Guccini ha definito giustamente come la più emiliana delle città toscane, guardo i monti appena spruzzati dalla neve del 28 dicembre di questo strano 2020.  Commosso, penso al mio grande Fiume e ad una lotta per la libertà e la democrazia che tanto è costata, ma in cui tantissimo, pur tra sanguinanti contraddizioni, si è donato ed amato.

Francesco Lauria



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